Notificazione che sancisce il ripristino dell’autorità pontificia.
L’esecuzione di Ciro Menotti. (Ill. di E. Matania in Storia del Risorgimento Italiano, 1889).

Restaurazione del potere pontificio e repressione

I componenti della Magistratura cittadina che durante l’insurrezione costituirono il Comitato Provvisorio di Governo non subirono particolari conseguenze; tuttavia furono rimossi quasi tutti a giugno. La ponderosa documentazione da essi raccolta per dimostrare di essere stati costretti alla ribellione dalla “violenza” di Perugia e di aver accettato di restare in carica solo per garantire la tranquillità pubblica non appariva – né appare tuttora – del tutto convincente.
Sul Comitato tifernate non espresse un giudizio troppo benevolo nemmeno Giuseppe Amicizia, il primo a raccontare gli eventi di quel 1831; lo definì “sordo per sospetti e pauroso agl’inviti delle città sorelle”.
Quanto ai personaggi più esposti nell’insurrezione, Giuseppe Bufalini sarebbe rimasto alcuni anni nell’ombra, per tornare a recitare un ruolo da protagonista negli avvenimenti risorgimentali del 1846-1849.
Invece non svolse più attività politica in modo appariscente Vincenzo Gualterotti, per quanto restasse una personalità molto influente. In quel 1831 suo figlio ventenne Urbano partecipò “ai moti della Romagna” e si distinse per il valore militare nel “fatto d’armi” di San Lorenzino.
La vittima più illustre dei fatti del 1831 fu il marchese Luigi Bufalini. Per non correre il rischio dell’arresto, e di un processo che avrebbe forse messo in luce la sua attività cospirativa, preferì l’esilio. Insieme ad altri patrioti umbri – scrisse Vittorio Corbucci – Bufalini “fugge di notte tempo, travestito e dopo un periglioso viaggio, quasi tutto a piedi per la montagna, riesce a Livorno, donde s’imbarca a bordo del Brich-Scooner ‘L’Oriente’ del capitano Baracchini, con destinazione a Marsiglia”.
Poco si sa dei tifernati che si arruolarono volontari nella Guardia Nazionale. Giuseppe Amicizia riuscì a dare un nome solo a 28 di essi. Tra i volontari da lui citati vi è il sacerdote Vincenzo Lensi. Cappellano della Guardia Nazionale di Città di Castello, accettò poi la nomina del Comitato di Perugia a impartire assistenza spirituale alle milizie della Provincia. Quei soli dieci giorni in cui Lensi seguì il battaglione della Guardia Nazionale bastarono per farlo poi sospendere a divinis. Il sacerdote si rifugiò ad Ancona, da dove chiese perdono al vescovo di Città di Castello. Non gli giovò. Muzi ribadì di volerlo far processare, anche perché il suo comportamento lasciava perplessi da tempo. Lensi finì con l’andare in esilio. Morì in Francia nel 1867.
I più vulnerabili a misure repressive furono dunque i funzionari politici, amministrativi e religiosi che in qualche modo avevano sostenuto l’insurrezione. Li si poteva colpire facilmente licenziandoli, trasferendoli o privandoli dello stipendio. Tra chi dovette scontare il fio per una supposta adesione alla rivolta vi fu un tenente dei carabinieri pontifici di Città di Castello, Remigio Lambertini. Uno sgrammaticato memoriale lo accusò addirittura di essere stato “la tottale origine che cotesta Città abraciò il sistema rivoluzionario”. Quando gli si ingiunse di lasciare la città, volle ribadire la sua innocenza: “di nulla mi sono imbarazato ne intrigato durante il nuovo governo, se non che pel mantenimento del Ordine Pubblico”.
Un altro funzionario pubblico che passò dei guai fu Sebastiano Panzi, “Ispettore de’ Tabacchi” a Città di Castello. Gli imputarono che “si prestò a insegnare la manovra militare alla Truppa nazionale” e che inoltre si fece “sempre vedere in unione e comunicazione con persone sospette, e adette alla passata rivolta”.
Spiacevoli strascichi resero inquieta la vita anche al segretario comunale Giustino Roti. La tensione accumulata in quelle frenetiche settimane di vita pubblica lo fece ammalare. Più di tutto però lo turbarono – così scrisse – i “tanti dispiaceri che nei cambiamenti politici per il fanatismo degli opposti partiti piombano sul cuore di un impiegato di tutta responsabilità, moderazione e onoratezza”. L’aver lasciato sovente traccia, nei documenti municipali, di questa sua moderazione, e soprattutto di fedeltà al papa e alla Chiesa, non lo risparmiò dal sospetto, insinuatosi nelle gerarchie ecclesiastiche, che nutrisse convinzioni liberali ben più radicate di quanto trasparissero pubblicamente. Insospettiva pure il fatto che esibisse il “barbuto suo mento”, segno distintivo dei liberali.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).