Immagini di porta Santa Maria nei primi anni del ‘900.

Porta Santa Maria: secondo progetto di demolizione

Nel dicembre del 1903, il destino del conteso torrione parve ormai segnato. Il consiglio comunale ne deli­berò di nuovo la demolizione. Era soprattutto l’esigenza di dare lavoro ai disoccu­pati a metterne a repentaglio l’esistenza; le ragioni di carattere igienico ed estetico addotte avevano più che altro il significato di rafforzare le motivazioni contingen­ti. Nelle settimane successive, l’opinione pubblica partecipò con insolito ardore al dibattito originato dalla deliberazione consiliare. Ci fu chi contestò le ragioni igieniche, sostenendo che di aria e luce ve n’era a sufficienza in quell’area; il picco­ne avrebbe dovuto essere impiegato poco distante, nel quartiere della Mattonata: “Lì è forse da vedere se l’aria, la luce, l’igiene esiste, sia nelle strade, come nelle abitazioni. Lì è che un municipio veramente popolare deve ficcare gli occhi ed il naso”. Né, agli oppositori, pareva convincente la tesi secondo cui porta Santa Maria impediva la normale circolazione dei veicoli: “Allo stato odierno dell’attività citta­dina”, si scrisse con amara ironia, “quello stretto passo è più che sufficiente alla nostra entrata ed uscita .
Anche tra i sostenitori dei partiti popolari serpeggiava un certo rammarico per l’abbattimento di un fortilizio che ricordava l’orgogliosa difesa della propria libertà da parte dell’antico comune. Le asprezze polemiche e la conseguente caduta di stile nel dibattito fecero emergere nella loro schiettezza le ragioni delle due opposte fazioni, con tutte le implicazioni politiche e le visioni culturali che sottintendevano. Così, il torrione venne descritto come un “parapalle da bersaglio senza alcun vantaggio della città nostra”, un goffo impiccio alla cir­colazione gabellato per monumento storico ed artistico per puro e semplice spirito di opposizione politica, oppure “una costruzione posticcia, fatta su in fretta e fu­ria, il cui merito non è altro che quello di essere di quattro secoli fa”.
Si leva­rono anche da Firenze voci a sostegno del torrione. Il periodico “Arte e Storia” definì la progettata demolizione “un inutile e deplorevole vandalismo, ispirato da quella smania di modernità che minaccia di trasformare l’aspetto delle nostre vec­chie città, togliendo loro quanto conservano del loro carattere locale”. Giuseppe Lando Passerini denunciò duramente nel “Marzocco” “la barbarie democratica” e l’ignominia della borghesia dinanzi alla “implacabil furia demolitrice della gente nova”, lamentando come a Città di Castello già le antiche porte munite di San Flori­do, San Giacomo e Sant’Egidio fossero state ridotte a “goffe e volgari barriere”.
Forti di queste autorevoli prese di posizione, i monarchici tifernati issarono la loro bandiera sul torrione, pronti a difenderla a lungo contro il piccone demolitore dei socialisti. Questi ultimi risposero per un po’ colpo su colpo, ma, concentrati com’e­rano sugli enormi problemi economici e sociali della città, evitarono di farne una questione di principio.
Mentre divampava la polemica, Giovanni Magherini Graziani, ispettore agli scavi e monumenti della zona, e l’architetto Viviani, direttore del competente ufficio re­gionale, intervennero chiedendo la sospensione della delibera. Di lì a pochi giorni, il prefetto ricordava che il progetto avrebbe dovuto ricevere l’autorizzazione del ministero della Pubblica Istruzione. Grazie a questi tempestivi interventi, il torrio­ne sopravviveva ancora una volta alla minaccia di abbattimento.