Patrioti di Città di Castello e Sansepolcro

La posizione strategica di Città di Castello, e del vicino centro toscano di Sansepolcro, nei contatti tra i nuclei patriottici veniva confermata da altri elementi. Proprio in quel periodo il “pregiudicato pericolosissimo” Gherardi Dragomanni, già arrestato nel 1833 e sorvegliato attentamente dalla polizia dei due Stati, aprì a Sansepolcro una libreria. Le autorità pontificie sospettavano che si trattasse di un semplice espediente per introdurre e diffondere nel loro territorio, d’accordo con i liberali umbri, “libri e carteggi rivoluzionari”. Il commissario di polizia di Arezzo in effetti avvalorò il timore che “libri incendiari” potessero essere introdotti clandestinamente “per la frontiera di Città di Castello” per mezzo della “libreria di fresco stata aperta a Borgo S. Sepolcro”.
Anche il governatore distrettuale tifernate Giovanni Lorenzini puntò l’indice contro la libreria di Sansepolcro: “Non mi giungono nuovi i sospetti del mio governo, che a mezzo della libreria e cartoleria esistente […] sotto la Ditta Pichi e Gherardi Dragomanni possino introdursi e si introduchino nello Stato Pontificio libri e stampe perniciosissime ai legittimi governi, all’ordine pubblico ed assai pregiudicevoli alla gioventù che da vecchi settari si vuol far divenire tutta guasta e corrotta”.
Il governatore comunicò al giusdicente di Sansepolcro altre informazioni riservate in suo possesso che contribuiscono a delineare quale fosse allora la rete patriottica attiva nell’Alta Valle del Tevere umbra e toscana: “Lodovico Corbucci dimorante da più anni a Città di Castello, uomo di esquisito ingegno ma pertinace cattivo pensatore moderno ed in istretta relazione col Dragomanni, ha stabilito qua un negozio di libri per avere come mi si accenna da qualche confidente campo e coperta a ricevere fra altri libri indifferenti gli empi e perniciosi e tutti provenienti dalla parte di Borgo S. Sepolcro o di Monterchi […]”.
Lorenzini inoltre rivelò come i possidenti tifernati Antonio Sediari e Luigi Carleschi riuscissero a introdurre in territorio umbro “plichi e fagotti e cassette”: “[…]spesso si portano in quelle vicinanze e s’introducono nello Stato Toscano presso Monterchi ove hanno dei beni e pei modi amorevoli che usano ai membri della squadra di Monterchi, alle guardie della Finanza Pontificia, passano con i loro legni o cavalli senza che ad essi si faccia alcuna osservazione neppure di passaggio”.
Il governatore asserì inoltre che i suoi informatori davano per certo l’arrivo all’ufficio postale di Sansepolcro di lettere contenenti ambigue notizie e tutte scritte con maligna arte” e dirette a tifernati “assai pregiudicati in materia politica”, come il conte Marcello Beccherucci, il marchese Luigi Bufalini, il dottor Pietro Dini, il chirurgo Erasmo Arderlini, il dottor Giuseppe Ricci, GioBatta Signoretti, Francesco Carnevali e Bartolomeo Lensi. Le lettere venivano ritirate “o per il solito postino o per qualche contadino” inviato dal barbiere castellano Marcello Camilletti, “tutti ligi al conte Marcello Beccherucci”.
Lorenzini confermò che spesso i pieghi inviati a mano o per la posta a Gherardi Dragomanni contenevano documentazione diretta ai cospiratori di Città di Castello, ma aggiunse che “libri e pieghi antipolitici ed empi” venivano introdotti anche da un contadino toscano a Sangiustino, da dove Giuseppe Bufalini e il medico condotto Fabrini [Fabbrini?] provvedevano facilmente a trasmetterli a Città di Castello e in altre località dello Stato pontificio. Altro canale di trasmissione di documenti e stampati diretti da Firenze ai tifernati era “il vetturino così detto il Fiorentino”.
Punto di riferimento a Fratta di questa rete di patrioti era Domenico Mavarelli, il quale certamente, a sua volta, teneva con maggiore facilità i contatti con Perugia. Un articolato canale di comunicazioni clandestino, quindi, che collegava Firenze a Perugia attraverso l’Alta Valle del Tevere, e da questa si irradiava pure verso il territorio marchigiano (Apecchio e Sant’Angelo in Vado).
Il breve riferimento di Lorenzini a un Soleri – “ho abbassato segreti e precisi ordini a confidenti ed impiegati di mia fiducia per sorvegliarlo a dovere e perquisirlo appena lascerà il confine” – introduce un nuovo personaggio di questa coraggiosa organizzazione di patrioti. Si trattava di Antonio Soleri, cittadino di Sansepolcro che evidentemente, come in quella circostanza, capitava spesso nel Tifernate. Di famiglia agiata e di professione cappellaio, s’era compromesso nei moti del 1831, fino a subire il carcere. Rimase fermo nei suoi principi, tanto da sacrificare in modo irreparabile gli interessi commerciali, e fu un costante punto di riferimento per tutti i liberali del territorio, “sovvenendo di guida e ricovero ai molti profughi dal vicino Stato Papale”. Avrebbe pagato il suo impegno civico con altri periodi di detenzione ad Arezzo e nel forte di Piombino. Proprio nel settembre di quel 1836 gli nasceva il figlio Luigi, che sarebbe diventato ufficiale garibaldino e tifernate di adozione, simbolico suggello degli stretti vincoli che unirono Città di Castello e Sansepolcro durante il Risorgimento.
Il sopra citato scambio di informazioni tra le autorità pontificie e toscane preluse all’avvio di una più rigida sorveglianza del confine, soprattutto per impedire l’introduzione di materiale stampato. Il governatore Lorenzini chiese ai toscani anche di far pedinare i sospetti tifernati “da fidi e segreti agenti per viemeglio conoscere i loro passi, le loro relazioni, il vero scopo dei loro viaggi”. Ma quando si spinse al punto di proporre di intercettare e far sequestrare in via preventiva le lettere e i plichi ad essi spediti, il commissario di polizia aretino giudicò un metodo così illiberale “non consentaneo ai nostri principi” e il presidente del Buon Governo di Firenze lo definì “violento troppo e mal conciliabile coi nostri sistemi”. Tutti si trovarono invece concordi sulla necessità di “portare la più energica, sagace e cauta vigilanza” sulla libreria Pichi-Gherardi Dragomanni di Sansepolcro e sulle sue spedizioni a Città di Castello, sequestrando eventuali pubblicazioni illecite da essa possedute. Senza illudersi, però. Il commissario di polizia aretino fece queste considerazioni: “I libri interdetti dal governo pontificio sono molti, ma molti di più di quelli prescritti fra noi. È molto probabile che i noti negozianti del Borgo S. Sepolcro si guardino bene dal tenere nella cartoleria ciò che potrebbe formare oggetto di sequestro”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).