Contadina in preghiera dinanzi alla fossa comune che raccoglieva le vittime di una strage tedesca.
Le vittime dell'eccidio di Penetola.
Le vittime dell'eccidio di Pian dei Brusci.

Ostaggi e rappresaglie tedesche tra giugno e luglio 1944

Nel giugno 1944 la stretta repressiva tedesca si appesantì. All’inizio del mese il comandante territoriale delle SS Karl Bürger dette ordini draconiani: “Al minimo segno di attività e atteggiamenti di ribellione contro i tedeschi, sia pure sotto forma di gesti (saluto bolscevico e simili) o di grida ingiuriose, mi aspetto da tutte le unità tedesche e italiane delle SS e della polizia l’intervento più duro e spietato”. Ancora una volta gli ufficiali ricevettero esplicite assicurazioni che eventuali eccessi sarebbero stati tollerati: “Nel caso, sosterrò ogni comandante che nell’esecuzione di questi ordini oltrepassi, nella scelta e nella durezza dei mezzi, la moderazione che ci è solita. Ogni intervento energico, ogni misura di punizione e di dissuasione, è appropriato per soffocare sul nascere trasgressioni di maggiore entità”. Di fatto si avallava ogni possibile arbitrio.

Il 17 giugno Albert Kesselring ribadì l’obbligo di punire “immediatamente” qualsiasi atto di violenza commesso dai partigiani e autorizzò rappresaglie contro la popolazione: “Laddove vi sia presenza di bande partigiane di notevoli proporzioni, una percentuale della popolazione maschile della zona dovrà essere arrestata e nel caso in cui si verifichino atti di violenza, questi uomini saranno fucilati”. Due settimane dopo avrebbe raccomandato che tali disposizioni non restassero “vuota minaccia”. Quanto alle rappresaglie, riaffermò che, dove operavano bande partigiane di cospicue dimensioni, si doveva trarre in arresto la popolazione maschile della zona in “una percentuale da stabilire a seconda dei casi” e passarla per le armi nell’eventualità di ulteriori attacchi, dando alle fiamme le loro abitazioni.

Il 22 giugno le disposizioni di Kesselring furono trasmesse agli ufficiali dal comandante in capo sud-ovest della X Armata tedesca: dal momento che – scrisse – “la popolazione civile italiana appoggia il nemico […] ed in parte partecipa attivamente alla lotta contro la truppa tedesca”, al fine di proteggere il fronte e le vie di rifornimento dietro le linee, bisognava “prendere e mettere al sicuro nei limiti del possibile nei loro territori gli abitanti di sesso maschile in età dai 18 ai 45 anni”; la cattura degli ostaggi sarebbe servita anche per “procacciare mano d’opera, urgentemente necessaria per i nuovi piani dell’industria bellica tedesca”. Ordini analoghi dettò il 3 luglio per la XIV Armata il generale Joachim Lemelsen, che sottolineò: “[…] dovrà essere immediatamente fucilato chi dà appoggio alle perfidi e criminali bande, sia fornendo viveri o dando alloggio, sia trasmettendo informazioni militari”.

Una dichiarazione dello stato maggiore della Wehrmacht, infine, avrebbe ribadito come non si potesse scindere la guerra ai partigiani dalla guerra ai civili: “Le guerre devono essere combattute tra soldati. Il combattente delle bande è un combattente civile sleale. La sua è una guerra alle spalle e un assassinio. Il suo stile di lotta scatena la guerra dei soldati contro la popolazione civile del paese che vi si presta. Il combattente non può distinguere senz’altro i combattenti delle bande dai civili fra i quali quello opera. Per forza di cose egli [il soldato] deve combattere contro tutta la popolazione civile che lo [il partigiano] tollera nel suo territorio. Ne conoscete già le conseguenze”.

È nel periodo di circa un mese, che va dalla liberazione di Perugia (20 giugno) fino alla liberazione di Arezzo (16 luglio) e Città di Castello (22 luglio), che la parte umbra dell’Alta Valle del Tevere e i territori limitrofi conobbero la violenza più brutale della guerra. Non solo i combattimenti e la furia devastatrice che di solito accompagnano, e drammaticamente, il passaggio del fronte bellico; ma anche abusi e ferocia non giustificabili con le pur incresciose esigenze di un conflitto. Un turbine di prepotenze e di brutalità che si sarebbe poi abbattuto anche sulla parte toscana della valle.

La sequenza delle stragi e delle esecuzioni sommarie compiute dai tedeschi in tale periodo è in effetti impressionante. La prima e più grave, il 22 giugno, avvenne poco al di fuori dell’Alta Valle del Tevere e inflisse una ferita non rimarginabile a Gubbio, dove quaranta eugubini furono uccisi per rappresaglia. Due giorni dopo altre rappresaglie seminarono la morte a Serra Partucci (5 fucilati), nel comune di Umbertide, e a Palazzo del Pero (10 fucilati), sul versante altotiberino del territorio aretino.

Nell’ultima settimana di giugno il vortice della violenza continuò a infierire a oriente del Tevere, tra le valli dei torrenti Minima e Niccone. Nella zona di Falzano (Cortona) perirono 12 civili; a Penetola (Umbertide) altre 12, tra cui tre ragazzini. [per questi tragici eventi, si veda le specifiche schede]

I gravi episodi avvenuti nell’ultimo scorcio di giugno 1944 si inquadrano in uno scenario bellico che vide i tedeschi resistere accanitamente agli Alleati lungo la Linea Albert (Grosseto – Lago Trasimeno – Numana). Dopo una settimana di battaglia, il 27 giugno gli anglo-americani riuscirono a sfondarla, aprendosi la strada verso la Valdichiana. Il versante occidentale altotiberino si trovava dunque nelle immediate retrovie del fronte tra Lago Trasimeno e Valdichiana, con la valle del torrente Niccone che assumeva rilevanza strategica come via di ritirata dei tedeschi verso la piana del Tevere.

In tale fase le tensioni del conflitto si sfogarono brutalmente sulla popolazione anche, e in modo ancor più tragico, in territori limitrofi. Il 29 giugno nella zona di Civitella della Chiana, nell’Aretino, i tedeschi uccisero per rappresaglia 244 persone.

 

Per il testo integrale, con le note e le fonti delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.