Meriti e limiti della Resistenza altotiberina

Quando, all’inizio di luglio 1944, le truppe alleate entravano nella valle, il locale movimento di Resistenza armata aveva ormai quasi esaurito il suo compito. Gli era stato chiesto di mettere in difficoltà i tedeschi, di colpirne le comunicazioni, di farli sentire sotto una costante minaccia, di costringerli a distogliere forze dalla prima linea per tenerle impegnate nelle loro retrovie. Ciò era avvenuto su vasta scala e in forma crescente da maggio. Inoltre le formazioni partigiane avevano acquisito sempre maggiore credibilità, proponendosi come punto di approdo per i giovani che si rifiutavano di combattere e di lavorare per il nazi-fascismo. Il considerevole incremento del numero dei “ribelli”, pronti ad affrontare i rischi e i disagi della militanza alla macchia, e il sostegno della popolazione, per quanto messa a dura prova dalle rappresaglie germaniche, erano una palpabile dimostrazione che dalle macerie della dittatura fascista e tra i drammi della guerra si stava esprimendo un dilagante anelito alla libertà, alla democrazia e alla giustizia sociale e si stavano plasmando solidi valori su cui rifondare la vita civile.

Il rilievo assunto dalla Resistenza altotiberina e gli obbiettivi da essa raggiunti risaltano soprattutto se si considerano i suoi limiti di fondo. Innanzitutto la frammentazione. L’insieme delle bande non è riuscito a diventare un movimento unitario, coordinato, con strategia condivise. Non potevano avere le capacità politiche per farlo bande composte per lo più da giovani inesperti e impreparati politicamente, cresciuti in epoca fascista e plasmati dalla scuola e dal poderoso apparato educativo, associativo e propagandistico del regime. Si è dunque trattato di una Resistenza con forti caratteri di spontaneismo. I giovani alla macchia avevano ben chiaro il rigetto della guerra, della dittatura fascista e dell’occupazione tedesca e per diverso tempo badarono quasi esclusivamente a nascondersi e a sfuggire alle ricerche per non rispondere ai bandi di arruolamento. La loro consapevolezza partigiana è maturata nel tempo e in condizioni difficili, mutuando idee ed esperienze dai compagni più esperti, dai settori della popolazione rurale più ostili al regime e dai pochi antifascisti di città che con grandi rischi si tenevano in contatto con le bande alla macchia. La lotta di questi giovani era dunque alimentata più da una idealistica aspirazione di libertà che da consolidate convinzioni politiche e ideologiche.

A tale inadeguatezza non sono riusciti a porre rimedio i CLN provinciali, specialmente quello perugino, che avrebbero dovuto imporre una guida autorevole, indirizzando verso obbiettivi più ampi e condivisi formazioni sorte localmente in modo talvolta casuale e con una fortissima aspirazione all’autonomia. È pure vero che nella valle l’esperienza partigiana si è sostanzialmente consumata, dal punto di vista militare, in pochi mesi, tra il marzo e il luglio 1944: periodo nel quale anche a livello nazionale la Resistenza visse una fase di organizzazione e di sviluppo.

Le vicende della “San Faustino” sono emblematiche di questo limite della Resistenza altotiberina. La brigata da un lato non riuscì ad avere un proficuo collegamento con il CLN di Perugia, dall’altro stentò pure a tenere compatte e raccordate sotto il suo comando le bande che ne facevano parte; né maturò mai una strategia comune con le limitrofe formazioni della 5a Brigata Garibaldi marchigiana. Ma anche nell’Aretino, dove il CLN provinciale mostrò maggiore dinamismo e levatura, le bande altotiberine che aderirono alla “Pio Borri” pretesero di mantenere una loro spiccata autonomia.

Persino in tale circostanza storica ha fatto sentire inevitabilmente il suo peso la divisione amministrativa dell’Alta Valle del Tevere tra Umbria e Toscana. Mentre le esigenze di organizzazione militare della Resistenza imponevano una visione tutt’altro che ancorata alle tradizionali appartenenze istituzionali, le bande partigiane della vallata hanno finito con il relazionarsi con i centri antifascisti dei rispettivi capoluoghi provinciali, senza che però i CLN di Arezzo e di Perugia siano stati in grado di elaborare una strategia interregionale. Eppure non è mancata localmente la buona volontà. Le bande del Tifernate alla destra del Tevere non hanno avuto remore a raccordarsi con la “Pio Borri” aretina; e l’opera cospirativa di Venanzio Gabriotti a Città di Castello, che funse da ponte tra l’antifascismo umbro e toscano, fu troncata solo dalla sua fucilazione.

Quanto alle potenzialità militari della Resistenza altotiberina, sono state molto condizionate dalla mancanza di armi e di equipaggiamento o dalla loro inadeguatezza. Nei primi mesi obbiettivo prioritario delle bande fu impossessarsi di armi e munizioni, per potersi quanto meno difendere, e di generi alimentari e vestiario per sopravvivere alla macchia. In tale fase le loro azioni ebbero modesto rilievo e peccarono spesso di improvvisazione. Eppure già allora riuscirono a mettere in crisi i presidi della milizia fascista. Solo dall’inizio di maggio i rifornimenti lanciati dagli Alleati le misero in condizioni di attuare forme di guerriglia contro i tedeschi. Che essa fosse percepita come una minaccia incombente, una fastidiosa insidia soprattutto a vie di comunicazione per loro essenziali, lo sottolineano il numero e l’intensità dei rastrellamenti effettuati dai nazi-fascisti in pressoché tutto il territorio montuoso che fa corona alla valle.

Se si dà peso ai riconoscimenti distribuiti immediatamente dopo la Liberazione, gli Alleati apprezzarono la rischiosa lotta dei partigiani dietro le linee del fronte: una lotta da essi apertamente sollecitata per mettere in difficoltà il comune nemico. Tuttavia, una volta conquistata l’Alta Valle del Tevere, i britannici si premunirono di disarmare immediatamente la massa dei combattenti italiani, ricorrendo solo a una parte di essi per ruoli secondari di polizia militare, di guide e di pattuglie esplorative. A ciò li indusse il timore che le formazioni alla macchia fossero egemonizzate dai comunisti e potessero rappresentare politicamente un pericolo nell’opera di rifondazione della società locale. Certo è che in molti partigiani il brusco disarmo lasciò l’amara sensazione di una scarsa considerazione.

A credito del movimento partigiano altotiberino va infine il merito di aver saputo anteporre il fine comune dell’abbattimento del nazi-fascismo alle appartenenze ideologiche di ciascuno. Al di là di episodici screzi e incomprensioni, lottarono con pari dignità nelle bande armate, o le sostennero come patrioti, persone di ogni tendenza politica: comunisti, socialisti, democratici cristiani, azionisti, repubblicani, liberali e indipendenti. Grazie a ciò è stato possibile ricreare una convivenza civile nella quale tutti gli antifascisti si sono sentiti protagonisti della riconquista della libertà, della democrazia e della pace.

 

Per il testo integrale, con le note e i riferimenti iconografici, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.