Ricevuta di una requisizione effettuata dalla Brigata “San Faustino”.
Verbale per la restituzione di oggetti rubati da un partigiano.
Verbale del recupero di una cavalla requisita dai partigiani.

Banditismo, requisizioni e indennizzi

In un recente studio, Luciana Brunelli ricordava un’affermazione di George Orwell: “Come tutti sanno, la guerra attrae la canaglia”. Per quanto Orwell si riferisse alla guerra civile spagnola, secoli di conflitti hanno dimostrato l’universalità di tale asserzione. Né può fare eccezione la Resistenza armata contro il nazi-fascismo. Troppo allettante, infatti, l’opportunità che offriva la vita randagia alla macchia a chi, senza scrupoli e senza ideali, si infiltrava nelle bande partigiane per compiere ruberie e, talora, vendette. Anche nell’Alta Valle del Tevere la Resistenza è stata “inquinata” da alcuni episodi e personaggi, che comunque si rivelano delle eccezioni in uno scenario di integrità etica della lotta.

Un caso eclatante fu quello del fiorentino Ermete Nannei, bollato come “elemento poco raccomandabile”, “profittatore” e “avventuriero della guerriglia”. Nannei, che si mosse tra la Valtiberina, Badia Tedalda e Sestino, approfittò di una requisizione di generi alimentari alla fattoria di Aboca per sottrarre e occultare argenteria. Il controverso partigiano sarebbe stato poi giustiziato dai compagni della banda “Francini” di Sansepolcro. La refurtiva fu restituita ai proprietari alla fine del 1945.

Sull’Alpe di Catenaia la formazione di “Tifone” nel marzo 1944 catturò due inglesi “che vivevano di rapina e si spacciavano per partigiani”. Nell’Anghiarese non godette di gran fama il “Russo”, che capeggiava l’omonima banda. Si verificarono “spiacevoli episodi di banditismo” anche nella zona di Marzana e Monte Favalto, tanto che il comandante partigiano Aldo Donnini raccontò di aver “disarmato e legnati di santa ragione due banditi” che operavano nella zona. A giugno la formazione dello stesso Donnini “sorprese tre banditi” a Montemercole, costringendoli alla fuga e ad abbandonare armi e denaro. A Rassinata uomini della Brigata “Pio Borri” giustiziarono un compagno di lotta, accusato di aver commesso una rapina e altre scorrettezze. Piero Signorelli, che ben conosceva uno degli autori dell’esecuzione, ricorda il rigore morale imposto dalla “Pio Borri”: “Non si toccava niente noi della Resistenza. Per quanto riguarda la disciplina e la correttezza, al nostro interno non si perdonava”. Tre giovani della valle del Nestoro e un cortonese che per circa 40 giorni comandò la banda di Badia Petroia non sarebbero stati riconosciuti partigiani combattenti nel dopoguerra, in quanto “indegni per furto commesso durante l’attività di partigiani”. L’ex comandante di Cortona, denunciato per le ruberie, uscì dal carcere dopo 14 mesi per amnistia. Altri sedicenti partigiani lasciarono un brutto ricordo sulle montagne tra il Cortonese e il Tifernate. Don Giovanni Salvi, che pure riconobbe i “nobili sentimenti” dei tanti giovani alla macchia, dette voce al malessere della popolazione vittima di questi impostori: “Spesso si vedevano gironzolare degli individui armati che incutevano timore alla popolazione perché, spinti o dalla fame o dal vagabondaggio, facevano sgradite visite nelle case dove sapevano di trovare danaro o generi per la banda o per i loro fini particolari”.

Episodi imbarazzanti avvennero anche immediatamente a ridosso dell’Alta Valle del Tevere. Testimone attento e partecipe di quanto avveniva sul versante orientale del Casentino, il giornalista Renzo Martinelli scrisse: “Molti, più di quanti non si possa calcolare, sono i falsi partigiani, i ladri da strada maestra, che si buttano in mezzo al sacrificio dei patriotti, usurpano la loro qualifica, e, qualche volta, le loro divise”. In Val Marecchia la banda del ligure Giorgio Cordonet – una dozzina di uomini “quantomeno equivoci” – per un certo periodo effettuò delle requisizioni millantando attività partigiana e “ingenerando nella popolazione diffamazione ed una comprensibile diffidenza verso i veri partigiani”. Intervenne la 8a brigata romagnola e impose il rispetto dei rigidi criteri di comportamento che adottava per approvvigionare gli uomini alla macchia. Inoltre, quella che venne definita “una pericolosa attività di bandito” vide protagonista nel Montefeltro Aldo Ricci, già milite fascista, poi alla macchia, infine disertore dalle file della Resistenza, che fu alla fine giustiziato dagli stessi partigiani della zona.

Affrontò il problema pure il tifernate Giulio Pierangeli, padre di Stelio, comandante della “San Faustino”: “A Bonsciano alcuni sedicenti ribelli si fecero consegnare una somma cospicua dalla marchesa Prosperini, ma l’intervento dei veri ribelli li costrinse alla restituzione”. E ancora: “In campagna, specialmente nella parte montagnosa, i ribelli erano considerati i padroni della situazione; benché del loro nome si valessero anche dei ladri per notturne richieste di denaro”. Nonostante tali episodi – scrisse Pierangeli – non veniva meno il sostegno della popolazione rurale alle bande partigiane; e sottolineò la gioia di Venanzio Gabriotti, all’inizio di maggio 1944, quando poté constatare che la Brigata “San Faustino”, nel Pietralunghese, era un gruppo “bene organizzato e disciplinato”, e soprattutto “gradito a tutta la popolazione della zona per la correttezza scrupolosa”.

Laddove il sostentamento degli uomini alla macchia richiedeva il prelievo forzoso di generi alimentari, bestiame, vestiario e persino denaro, agire correttamente significava rilasciare una ricevuta che elencava quanto prelevato e avrebbe dovuto essere esibita per il rimborso a guerra finita. In tanti casi, comunque, restava in chi subiva la requisizione il senso di una spoliazione arbitraria, che purtroppo si aggiungeva alle ruberie germaniche. Raccontò un contadino di Santa Sofia Marecchia: “Questi partigiani, quando venivano a Santa Sofia, portavano via formaggio, latte, piccioni, conigli, galline e gallinacci, alla gente non facevano niente e poi se ne andavano. I tedeschi arrivavano dieci minuti dopo e portavano via mucche, maiali, pecore ed altre cose e tra tutti e due facevano piazza pulita. […] I partigiani erano molto più bravi dei tedeschi, perché chiedevano le cose garbatamente, mentre i tedeschi portavano via le cose molto sgarbatamente”.

Per disciplinare gli indennizzi, il consiglio dei ministri nel 1948 stabilì quanto segue: “[…] a norma del Decreto Legislativo 19 aprile 1948 n. 517, la liquidazione dei debiti contratti dalle formazioni partigiane per esigenze della lotta di liberazione viene effettuata dalla Intendenza di Finanza competente per territorio in relazione al luogo ove fu contratta l’obbligazione. Gli interessati potranno pertanto rivolgere regolare domanda di indennizzo secondo le modalità stabilite dal Decreto stesso pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 120 del 25 maggio u. s.”. In pratica, per richiedere il risarcimento, gli interessati dovevano presentare la ricevuta rilasciata al momento della requisizione e spettava alle Commissioni regionali per il riconoscimento dei partigiani il compito di certificare sia che il prelievo era avvenuto realmente “ai fini della lotta di liberazione”, sia l’autenticità delle firme apposte; spesso di trattava infatti dei nomi di battaglia dei comandanti. La Commissione regionale umbra esaminò 17 pratiche di indennizzo riferite a requisizioni effettuate dalla Brigata “San Faustino”, 13 delle quali nel territorio di Pietralunga.

 

Per il testo integrale, con le note e i riferimenti iconografici, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.