Il nuovo incarico professionale non impedì a Gabriotti di tener fede agli impegni di carattere politico e sindacale. L’Unione del Lavoro, che presiedeva, dette prova di particolare dinamismo, organizzando soprattutto i lavoratori delle campagne. Il sindacato cattolico invitò i mezzadri ad esigere la chiusura annuale dei conti colonici e a farsi assistere dall’Unione nella denuncia dei proprietari inadempienti e nell’opposizione agli sfratti ingiustificati. L’Unione costituì inoltre l’Associazione dei Piccoli Proprietari, con l’intento di sostenere la forma di proprietà privata considerata dai cattolici più giusta. Tali iniziative ebbero il deciso appoggio di “Voce di Popolo”, diventato settimanale ufficiale di tutte le associazioni cattoliche. […]
Il mondo del lavoro era in ebollizione e viveva una stagione rivendicativa di grande rilievo, che si stava estendendo a quasi tutte le categorie. Gran parte delle agitazioni si risolsero con la conquista di aumenti salariali senza il ricorso all’arma dello sciopero. Solo i ferrovieri dovettero scendere di nuovo duramente in lotta, incrociando le braccia per 42 giorni.
Nella primavera del 1920 anche i cattolici poterono vantare un primo rilevante successo in campo sindacale. All’inizio di marzo gli addetti all’estrazione di lignite della miniera di Sansecondo chiesero a Venanzio Gabriotti di aiutarli ad ottenere aumenti salariali. I proprietari fino ad allora si erano dimostrati intransigenti e del tutto insensibili alle penose condizioni di vita dei dipendenti. Il responsabile dell’Unione del Lavoro si mise subito a disposizione, giudicò “inumano” il trattamento economico dei minatori e promise di guidare la vertenza. Ma pose delle condizioni: “Se qualcuno di voi si fosse già rivolto alla Camera del Lavoro o intendesse ad essa rivolgersi, la dica subito, che io non faccio altro che tornarmene dove sono venuto, perché creando un dualismo in questa questione faremmo gli interessi dei padroni ed il danno degli operai”. O con me o con i socialisti, disse quindi Gabriotti; in quel clima politico un’azione comune appariva inconcepibile e controproducente, così che tanto i cattolici quanto i socialisti preferivano operare in organizzazioni nelle quali esercitavano un controllo totale.
I minatori, 110 in tutto, dichiararono di nutrire la massima fiducia in Gabriotti, che presentò il loro memoriale alla direzione romana e ai funzionari locali. L’atteggiamento sfuggente e dilatorio di costoro li costrinse dopo pochi giorni allo sciopero; fecero eccezione solo gli addetti all’estrazione dell’acqua, per evitare l’allagamento dell’impianto. Per sbloccare la situazione, il partito popolare mobilitò gli amici più prestigiosi che aveva a Roma, De Cesare e Cingolani. Ma la proprietà rimase chiusa sulle sue posizioni, concedendo moderati aumenti salariali ad alcuni e minacciando altri di licenziamento. Fu così che anche gli estrattori di acqua decisero di scioperare e la miniera cominciò ad allagarsi.
I cattolici condannarono l’atteggiamento dei proprietari (“esempio tipico di cecità e di caparbietà da parte di quell’elemento borghese che avrebbe dovuto pur essere all’avanguardia del progresso”) e, circostanza del tutto imprevista, ricevettero la solidarietà della Camera del Lavoro, che inneggiò agli scioperanti e stigmatizzò la “taccagneria dei padroni”. Intanto bisognava raccogliere fondi per dare di che mangiare alle famiglie dei lavoratori in lotta e si lanciò un appello in tal senso. Lo stesso Gabriotti fu tra i primi e più cospicui sottoscrittori, ma l’iniziativa non sortì gli effetti sperati (“la grande massa operaia lasciò i minatori a se stessi forse perché non erano rossi”, lamentò “Voce di Popolo”). Nonostante queste crepe sul fronte della solidarietà, i minatori vinsero la loro battaglia e l’Unione del Lavoro gridò con orgoglio: “I lavoratori che vogliono salvare i loro diritti possono imparare dai minatori di Sansecondo: li sappiamo tutelare e difendere anche noi”.
L’estratto è una sintesi del testo in Venanzio Gabriotti e il suo tempo (Petruzzi Editore, 1993).