Il salone di lavorazione nello stabilimento di via Oberdan.
Cernita delle foglie di tabacco nel 1928.
Prima selezione delle foglie e carico del tappeto trasportatore (1928).

Lo sviluppo degli anni ’20

 

La politica della Fattoria si caratterizzò per la forte intesa con il Monopolio, che si proponeva l’obbiettivo di affrancare l’Italia dall’importazione di tabacco estero. E il Monopolio, dopo la parentesi bellica, incrementò la concessione del consorzio tifernate, autorizzandolo a coltivare 300 ettari nel triennio 1919-1921. Il quantitativo raddoppiò nel triennio successivo, raggiungendo una soglia limite che indusse ad ammettere come nuovi soci solo quei proprietari che potevano portare il proprio contingente, “ottenuto per concessione e trasformato”. Nel 1929 la Fattoria arrivò a contare 282 soci, con una concessione autorizzata di 670 ettari; il tabacco prodotto nei 1.163 poderi raggiunse la produzione di 10.878 quintali.
Contestualmente cresceva il numero degli addetti nel magazzino di lavorazione e di imbottamento del tabacco nei locali di Via Guglielmo Oberdan, la nuova denominazione di Via in Pareti. Nel 1923 erano 194, tra cui 151 donne; divennero 292, con 215 donne, nel 1928 e 325 nel 1929. Della progressiva espansione dell’insediamento industriale della Fattoria tra l’ex convento di San Domenico e le mura cittadine meridionali si tratta in maniera specifica nella seconda parte di questo lavoro.
Nei primi anni ’20, delle maestranze dell’azienda cominciarono a interessarsi anche le cronache dei periodici locali. Non si usava ancora il termine “tabacchine”, bensì “tabaccaie” e talvolta addirittura “sigaraie”. Durante il carnevale tifernate, il loro veglione divenne uno degli appuntamenti più ambiti. Nel 1924 ebbe luogo al Cinema Eden e, dopo un Gran Cotillon notturno, si protrasse fino alle cinque del mattino: contribuì a organizzarlo l’“amato direttore” Garinei.
Sono inoltre i periodici locali a informarci sulle prime vertenze sindacali. Nel marzo 1920, in un periodo di estese agitazioni del movimento dei lavoratori, il giornale socialista annunciò che anche le maestranze della Fattoria si erano costituite in lega, aderendo alla Camera del Lavoro. Ma quando ottennero degli incrementi salariali, la direzione aziendale tenne a precisare che gli aumenti non erano “dovuti a pressioni di chicchessia, ma alla costante abitudine di migliorare il più possibile le condizioni dei dipendenti”. In seguito, in piena epoca fascista, la Fattoria avrebbe ribadito la tesi che le sue maestranze “neppure nel periodo del più acceso sovversivismo pensarono a costituire leghe e a minacciare scioperi ed agitazioni, con esempio unico nella regione”.
Il settimanale “Polliceverso” dette notizia nel 1926 della conclusione della prima vertenza gestita dal sindacato fascista. L’aumento salariale del 10% a titolo di carovita ottenuto dai dipendenti della Fattoria fu considerato un esempio di “collaborazione di classe” tra sindacalisti e dirigenza aziendale, che accettò “integralmente” le richieste avanzate; aveva già concesso un incremento della stessa entità nell’agosto dell’anno prima.
La bontà dello sviluppo della Fattoria era annualmente scandita dai calorosi apprezzamenti sul bilancio annuale da parte dei sindaci revisori, che rimarcarono l’“ottima” situazione finanziaria dell’azienda e la sua “solidità eccezionale”.