Nel 1912 alcuni falegnami tifernati intrapresero il coraggioso tentativo di proiettarsi verso orizzonti industriali. Si associarono, presero in affitto dal Comune dei locali al pianterreno dell’ex convento di San Francesco, investirono in macchinario tecnologicamente avanzato e fondarono lo Stabilimento Lavorazione Legnami. Il periodico “Plinio il Giovane” rimarcò la volontà dei fondatori “di dare all’arte del falegname quella modernità di concetti e di mezzi in armonia coi tempi nuovi, e […] tutti quei compensi meccanici che possano permetterle di fronteggiare, per quanto è più possibile, quella vigorosa dei centri industriali”. Una ditta tedesca fornì il “macchinario perfettissimo e di ultimo modello” in grado di consentire “una lavorazione impeccabile”; a esso furono assegnati “giovani operai intelligenti ed esperti nell’uso dei mirabili congegni”. Per il montaggio e la costruzione dei manufatti, preparati in laboratorio con macchine a energia elettrica azionate da due motori della potenza di otto cavalli, si scelse una maestranza “numerosa e provetta”, espressione del meglio della tradizione artigiana delle botteghe tifernati. Alla direzione tecnica dell’azienda fu posto il perito Enrico Vincenti, reduce dall’esperienza della SALL; come amministratore figurava il capobottega Antonio Del Lungo.
Lo Stabilimento produceva infissi, serrande e mobilio comune e artistico su qualsiasi disegno; inoltre fece costruire un capanno per collocarvi una nuova sega alternativa per la segatura in tavole di grossi tronchi di legname – fino a m 8 di lunghezza e m 1 di larghezza. Il Comune, che aveva offerto un contributo per l’ampliamento dei locali, ordinò subito banchi per le scuole elementari rurali e mobili per le sezioni elettorali. La Società Laica del Camposanto commissionò porte di varia grandezza in noce placcata e altre in legno bianco da colorarsi uso noce. Il giro di affari si estese e parve che tutto andasse per il meglio: Del Lungo riaffermò il “desiderio vivissimo di dare all’arte del falegname quell’impulso vigoroso e fattivo come esigenze della moderna industria richiedono” e accettò la sfida dei grossi sacrifici finanziari che tale ambizione implicava.
Di lì a poco, però, il segretario contabile – l’esponente socialista GioBatta Venturelli – ammise l’impatto di una crisi determinata da “mancanza di lavoro”. Lo Stabilimento resistette fino al 1918; poi la crisi definitiva, la chiusura e il rilevamento del macchinario da parte di una ditta di Montevarchi.
Il periodico socialista “La Rivendicazione” si soffermò sulle cause del fallimento: “Allorché fu mosso il passo sulla vera via industriale e fu assunta una fornitura per l’amministrazione militare, si rivelò ben presto l’impotenza dell’artigianato ad assolvere il compito industriale”. Quindi l’amaro commento: “Affezionato alla propria bottega, attaccato come ostrica al proprio scoglio, al proprio io, con la tradizionale vita patriarcale, [l’artigiano] non ha saputo rinunciare all’effimera speculazione individuale, non ha seguito il consiglio dei migliori, dei più volenterosi, ed ha lasciato che il tutto si perdesse nel vortice dell’apatia, della noncuranza”1. Giudizi duri, espressi da un movimento socialista deluso per l’occasione mancata di “elevazione professionale del proletariato del legno”.