Lo scenario politico e sociale

Nell’Alta Valle del Tevere, l’ostilità verso la guerra dei ceti popolari, in particolar modo dei contadini, si era manifestata in modo chiaro già prima dell’intervento italiano nel conflitto. Il pacifismo intransigente dei socialisti, che stavano acquisendo una crescente egemonia politica nelle campagne, fu messo a tacere dalle rigide disposizioni governative di censura e di limitazione dell’attività politica imposte dopo il 24 maggio 1915; tuttavia aveva ormai sedimentato tra i lavoratori un rigetto della guerra che rendeva tra di essi difficilmente permeabile la propaganda interventista. La stessa Chiesa aveva più volte e a gran voce espresso posizioni neutraliste che facevano apparire, se non proprio incomprensibile, quanto meno dura da accettare la definitiva scelta di obbedire incondizionatamente, da irreprensibili cittadini cattolici, alle autorità costituite che avevano dichiarato giusto e inevitabile il conflitto.

Ad alimentare l’impopolarità della guerra ci pensarono, mese dopo mese, la disillusione subita per la mancata rapida vittoria, l’impressionante costo umano in termini di caduti e feriti, i racconti della sfiancante guerra di trincea da parte dei soldati in licenza e i crescenti sacrifici imposti alla popolazione civile dal carovita e dalla penuria di beni di prima necessità. Sacrifici che finirono con il gravare soprattutto sulle donne, rimaste spesso sole e senza mezzi adeguati a dover garantire la sopravvivenza della famiglia e, in campagna, a lavorare la terra.

In questo scenario, con migliaia di uomini validi al fronte, il malcontento per il disagio economico e per il protrarsi del conflitto non poteva che trovare sfogo, a livello di massa, con iniziative di protesta che vedevano protagoniste proprio le donne; agitazioni che, per lo stato di impotenza a cui erano ridotti i socialisti e quanti avrebbero potuto garantire ad esse direzione e strategia politica, assunsero il carattere di moti spontanei e convulsi.

Gli avvenimenti locali si inseriscono in un contesto che vide scoppiare quasi in ogni provincia italiana centinaia di simili manifestazioni di protesta tra il dicembre 1916 e la primavera del 1917; un crescendo che culminò nell’episodio più eclatante: la sommossa di Torino dell’agosto 1917. Privi di solide basi politiche, questi moti – scrive Piero Melograni – “non si traducevano in una grave minaccia per le istituzioni perché si svolgevano in forme disorganiche. Da un capo all’altro della penisola era ‘un continuo serpeggiare di piccoli incendi’, che si accendevano spontaneamente, restavano senza guida, e si concludevano di solito in poche ore” [1].
Agitazioni, dunque, improvvise, furiose e di brevissima durata. Quella altotiberina dell’aprile 1917, come vedremo, si protrasse invece per ben tre giorni.

[1] P. Melograni, Storia politica della Grande Guerra 1915-1918, Milano 2004, pp. 300-311.