L’approdo al socialismo

Tra la laurea in giurisprudenza di Giulio Pierangeli a Roma nel luglio del 1907 e il primo impegno pubblico assunto a Città di Castello – la presidenza della Società Patriottica degli Operai nel maggio del 1909 – corrono poco meno di due anni. Non si sa molto di lui in questo periodo. Bisogna quindi affidarsi – con le dovute cautele – alle notizie raccolte dalla prefettura, che proprio dal 1909 decise di schedarlo come “sovversivo”.
Si legge nella scheda che Pierangeli era alto 1 metro e 67 cm; di corporatura esile, aveva capelli e occhi castani, un viso di colorito pallido, i baffi e un’espressione “truce”. Già esercitava l’avvocatura. Da sempre socialista, era considerato dalle autorità di polizia l’“anima” della sezione del partito a Città di Castello: attivo nei “lavori di organizzazione”, partecipava a cortei e comizi, faceva propaganda “con discreto profitto” fra operai e contadini, leggeva abitualmente l’“Avanti!” e altri periodici “sovversivi” della provincia e collaborava “con suprema autorità” alla redazione dell’organo settimanale della sezione, “La Rivendicazione”. Non gli si potevano attribuire colpe particolari: moralmente irreprensibile, si comportava bene con i genitori, non aveva conti in sospeso con la legge e non era mai stato “ammonito” o “vigilato”. Però – secondo gli informatori – “nell’opinione pubblica non riscuote[va] buona fama”. E inoltre: “Di carattere calmo in apparenza, è evidentemente un ipocrita, pieno di malignità e di irrequietezza, che non osa assumere una forma arditamente pugnace perché è visibilmente vile. […] Verso le autorità tiene un contegno apparentemente corretto, ma spesso e volentieri insolentisce contro di esse col mezzo di anonimi sul giornale ‘La Rivendicazione’”.
Tali affermazioni avrebbero fatto sorridere quanti conoscevano il vero Giulio Pierangeli: una persona mite, che rifuggiva le asprezze fisiche e verbali della lotta politica, sempre pronta invece a valutare con attenzione le argomentazioni altrui, anche degli avversari. A tradire inoltre la prevenzione e la superficialità di quanti lo tenevano sotto controllo è inoltre l’attribuzione di un’intelligenza appena “sufficiente” a un uomo che si sarebbe rivelato tra i più lucidi e profondi conoscitori della realtà altotiberina e un acuto osservatore delle vicende italiane.
Come sia maturata in Pierangeli la scelta socialista non è noto. Certo è che, figlio di un operaio, conobbe le privazioni dei ceti meno abbienti e visse non meramente come questione ideologica il problema della loro emancipazione. Poté studiare solo in virtù dei sussidi dell’Opera Laica Segapeli-Cassarotti e nelle sue lettere all’istituto più volte si lamentò delle “cattive condizioni economiche”, che gli rendevano difficile “provvedersi di vestiario, di scarpe, di libri, […] di biancheria”; conduceva dunque “una vista modestissima” e, per far fronte alle spese per gli studi, dovette “parecchie volte lesinare sul vitto”.
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Sunto, senza note, tratto da A. Tacchini, Giulio Pierangeli: l’uomo e il politico, in Giulio Pierangeli. Scritti politici e cronache di guerra, a cura di A. Lignani e A. Tacchini, Istituto di Storia Politica e Sociale Venanzio Gabriotti, Petruzzi Editore, 2003.