Lo stabilimento della SAFIMA, già “Nardi & Rossi”, dopo il bombardamento del maggio 1944.
Carte intesate dell'azienda.

La “Nardi & Rossi”

Francesco Nardi – defunto nel 1939 a 77 anni – aveva lasciato la direzione dell’officina ai figli Giovanni, Giuseppe e Silvio, desideroso di trascorrere la vecchiaia a coltivare quei campi per la cui lavorazione più facile e proficua aveva dato un contributo così rilevante. I tre fratelli non si trovarono concordi sull’indirizzo da seguire e il più anziano di essi, Giovanni, si mise in proprio, fondando la “Nardi Giovanni & figlio Francesco”. Si trattò di una separazione consensuale, perché le due ditte nel 1935 si conferirono vicendevolmente la rappresentanza delle macchine e attrezzi di propria fabbricazione; inoltre, in quello stesso anno, Giovanni trovò sede nello stabilimento già di Malvestiti, presso la stazione ferroviaria di Città di Castello, acquisito dalla Cassa di Risparmio a seguito di esproprio esattoriale nell’aprile del 1933 e da essa affittato alla “Nardi”.
La nuova fabbrica si inserì nel solco dell’azienda madre, utilizzandone inizialmente i brevetti ed esibendone i riconoscimenti ufficiali. Assunse subito una dimensione industriale consistente. Il numero degli addetti, dapprima oltre la trentina, si attestò negli anni 1937-1940 tra i 60 e gli 80, con un picco di 167 nel 1938, per poter soddisfare una notevole fornitura di attrezzi agricoli per le colonie dell’Africa Orientale. Però, a differenza della consorella di Selci Lama, la nuo­va im­presa non beneficiò stabilmente di ragguardevoli commesse pubbliche e mantenne una clientela diffusa in particolar modo nel centro Italia e in Sardegna. La fabbrica ave­va in do­tazione macchinario d’avanguardia per Cit­tà di Castello: un maglio pneumatico, trancia e saldatura elettriche e presse idrauliche. Vi era inoltre un reparto falegnameria e segheria, per produrre le ruote in legno delle seminatrici.
Nel 1937 si trasformò in Società Anonima Nardi & Rossi. Ersilia Bellucci Rossi e i figli Pietro e Giuseppe investirono nell’azienda ca­pitale di origine agraria, garantendo liquidità e favorendo l’accesso al credito. L’anno successivo il capitale sociale venne incrementato fi­no a L. 600.000 e fu eletto il primo consiglio di amministrazione, composto da Pietro Rossi, Giovanni Nardi e GioBatta Giammaroni Cherubini, un perugino già funzionario del Consorzio Agrario.
Il 1939 si rivelò però un anno difficile, con un deficit di circa L. 400.000 determinato, a giudizio degli amministratori, dalla “mancan­za di materia prima in relazione alle spese ge­nerali dell’azienda”. Nella difficoltà di ap­provvigionamento, la “Nardi & Rossi” subiva certamente i riflessi negativi dell’isolamento internazionale dell’Italia fascista. La scarsa liquidità era allora un problema comune a mol­te imprese con clientela privata e di minuta consistenza. Comunque la fabbrica tifernate manteneva un buon prestigio, tanto da attrarre investitori forestieri. Proprio in quel periodo entrò in società, ricoprendovi la carica di am­ministratore unico, l’imprenditore Alberto Bianchi, originario della provincia di Piacenza. Mentre si provvedeva all’acquisto degli stabili dell’ex officina Malvestiti, peraltro già am­plia­ti e adattati, per convenienze amministrative la sede legale venne trasferita a Mi­lano.
Con il sopraggiungere della guerra, crebbe il peso di Alberto Bianchi, che collocò nell’azienda, come amministratore di fatto, il cogna­to Gino Granata. La nuova industria si chiamò SAFIMA (Società Azionaria Fabbrica Italiana Macchine Agricole) e si caratterizzò come produttrice di frangizolle.