Carta intestata della SAFIMA.
Il fabbro Antonio Marinelli.

La guerra e la SAFIMA

Fu l’industria meccanica altotiberina, in­sieme alla tipografica, a subire i danni più consistenti nel secondo conflitto mondiale. A Città di Castello il bombardamento del 14 maggio 1944 distrusse, oltre allo Stabilimento “Lapi”, la SAFIMA e l’Officina Vincenti.
I Vincenti salvarono le macchine agricole; previdentemente le avevano smembrate, occultando in campagna i pezzi accuratamente cataloga­ti. La sopravvivenza dell’industria meccanica deve molto alla convinta solidarietà dei contadini.
La “Godioli & Bellanti” superò indenne il periodo bellico. Parte delle attrezzature e le cinghie di trasmissione delle macchine furono sottratte al saccheggio nascondendole nel vici­no convento delle Murate. Quanto al resto, i tedeschi non toccarono nulla in via dei Lana­ri.
Sulla ricostruzione della “Nardi”, si veda l’articolo sulla storia dell’azienda.
L’altra antica officina tifernate, la “Vincen­ti”, salvate le attrezzature e le macchine per la trebbiatura, ripristinò subito la sede.
Le devastazioni subite nella primavera del 1944, fatali all’Officina Ferroviaria, non impedirono la rinascita della vicina SAFIMA, la principale fabbrica di macchine agricole di Città di Castello. Era rimasta operativa fino al bombardamento del 14 maggio, sostituendo con manodopera femminile parte dei meccanici al fronte. I proprietari riuscirono a reperire finanziamenti per ricostruire lo stabilimento e riavviarono l’attività con una trentina di operai, privilegiando nell’assunzione i re­duci dalla guerra. Il lavoro riprese quindi in un clima di fiducia, sostenuto dal prestigio acquisito dall’azienda. Si producevano soprattutto aratri monovomere con bure in legno, se­minatrici con ruote in legno e rastrelli, tutte macchine a trazione animale; inoltre, erpici a trazione meccanica. La vita della SAFIMA non si protrasse però a lungo. All’inizio del 1948 la proprietà licenziò il personale, giunto a una punta massima di 50 addetti, e di fatto chiuse la fabbrica. Il periodico “La Rivendicazione” lamentò che venissero lasciati al loro destino operai che si erano talmente adoperati per la ricostruzione da sopportare i disagi del lavoro in inverno senza vetri; propose anche che le maestranze costituissero una cooperati­va per il ferro battuto, ma la cosa non ebbe se­guito. Alla fine del 1952 l’officina restava an­cora inoperosa. Successivamente lo stabile e le at­trezzature sarebbero state rilevate da Silvio Nar­di.