L’immediato dopoguerra fu un periodo di grave emergenza. Stretti tra la diffusa miseria, con commesse di lavoro pubbliche e private ridotte all’essenziale, e le difficoltà infrastrutturali, che accentuavano l’isolamento della città a facevano lievitare i costi di produzione, fabbri e meccanici non erano nelle condizioni di elaborare lungimiranti strategie aziendali. Cercavano soprattutto di sopravvivere, anche se la recuperata libertà politica ed economica e le prospettive della ricostruzione potevano far intravedere, non troppo lontani, nuovi orizzonti produttivi.
In tale contesto, lo scenario presentava ben poche novità rispetto alla situazione prebellica. Nel 1947, elencando le aziende del settore, il Comune citava la SAFIMA, la “Godioli & Bellanti”, la “Vincenti”, la “Nardi” a Selci Lama e la “Emilio & Marino Marinelli”; vi incluse anche le officine dei fratelli Bacchi e di Umberto Marinelli, che però si dedicavano alla vendita e riparazione, rispettivamente, di auto e motocicli. Vita assai stentata conducevano le piccole botteghe dei fabbri Riccardo Beccari, Oreste Grilli, Dario Zucchini, Dante Cibei e Ugo Marinelli; del tornitore e saldatore Enrico Corbucci; dei fabbri ferrai Secondo Conti, Renato Mastriforti, Francesco Busatti e Domenico Smacchia. Ciascuno di essi doveva fronteggiare una forte concorrenza e, nella generale modestia delle condizioni di vita, ricavava dal lavoro appena di che sfamarsi. Era pertanto l’artigianato minuto a sopportare maggiormente il peso di quegli anni di faticosa transizione: “Capitava di lavorare un paio d’orette a bottega, poi di andare a zonzo alla ricerca di qualcosa da fare. Allora ci si adattava a tutto; lavoretti da manovale, nella costruzione delle strade o in altri progetti per disoccupati”.
I dati del censimento del 1951 rivelavano quindi un settore ancora arretrato. Nel comune tifernate – la “Nardi” si situava nel limitrofo territorio di San Giustino – le officine meccaniche generiche contavano 165 addetti, le produttrici di macchine agricole altri 40; si trattava del 7,78% degli addetti alle attività industriali. Ma proprio quegli sconvolgimenti sociali che caratterizzavano il decennio stavano per creare i presupposti per uno sviluppo altrimenti imprevedibile.
La crescita demografica, di pari passo con il consistente e irrefrenabile inurbamento della popolazione agricola, portò all’espansione della città ben oltre i tradizionali confini dell’antica cerchia muraria. Per quanto disordinata e impetuosa, la dilatazione della periferia significò provvidenziale occupazione per le imprese edilizie e per le officine meccaniche che fabbricavano gli elementi di arredo delle case in costruzione: ringhiere, balaustre, inferriate, lucernari, stufe economiche, ferrature per porte e finestre. Benché gli acquirenti – per lo più di ceto medio-basso – richiedessero lavori in economia, si aprirono comunque nuove prospettive per l’artigianato, con benefici sia per le piccole officine che per quelle di maggiore consistenza. Nel 1953, per l’edificazione della sede delle Opere Pie al Gorgone, la “Godioli & Bellanti” realizzò gli impianti di riscaldamento, le cucine e la lavanderia; Ugo Marinelli e Riccardo Beccari produssero letti, comodini, sedie e altre suppellettili in metallo; il fontaniere Marino Meattini gli impianti igienici.
L’espansione edilizia favorì la nascita di alcune minuscole botteghe. Dante Cibei, già fabbro ferraio con Mastriforti a Rignaldello, si mise in proprio alla Mattonata e nel corso di quegli anni produsse cancelli, letti e ringhiere. La domenica visitava le aree in costruzione delle città vicine per trarre nuove idee sui vari tipi di ringhiera da proporre alla clientela. Nello stesso quartiere della Mattonata, in piazza delle Oche, anche Oreste Grilli per un certo periodo si dedicò più che altro a manufatti per l’edilizia e a lavori da stagnino e fontaniere. Ugo Marinelli aveva l’officina al Gorgone e costruiva soprattutto reti per letti. Il fratello Mario, nella sua “Ceramfer” di via dei Casceri, produceva arredi casalinghi, tra cui originali fiori con stelo in ferro e petali in ceramica. Lì vicino, in via della Volpe Vecchia, c’era l’altro fabbro Dario Zucchini, allievo della Scuola Operaia e poi operaio alla “Nardi” e alla “Vincenti”. Fabbricava anche tubi per l’irrigazione – in quegli anni di sviluppo di una più razionale agricoltura – con una trafila realizzata con le sue mani.
L’attrezzatura di queste officine era modesta. I fabbri facevano da sé gran parte di quella di base, eccetto la morsa, l’incudine e il trapano. Dopo la guerra si dotarono di macchinario elettrico, affiancando gradualmente la saldatura elettrica a quella autogena, la troncatrice alla sega a mano, moderni trapani e “dischetti per arrotare” ai vetusti e tradizionali strumenti di lavoro.
Negli anni ’50 le botteghe dei fabbri erano ancora raccolte nel centro urbano e vivevano in simbiosi con la popolazione dei quartieri: a San Giacomo la “Godioli & Bellanti”, in via dei Lanari, e Secondo Conti, in via Trastevere; alla Mattonata Oreste Grilli, in piazza delle Oche, e Dante Cibei, in via della Madonna; al Prato Francesco Busatti, in via San Florido, Dario Zucchini, in via della Volpe Vecchia, e Mario Marinelli, in via dei Casceri. Appena “fuori porta”, in piazza del Mercato, operavano Emilio e Marino Marinelli; a Rignaldello Renato Mastriforti ed Enrico Corbucci; al Gorgone Ugo Marinelli. A fine decennio si censirono, compresi gli operai delle varie botteghe, 31 fabbri nel centro storico tifernate, cinque nei sobborghi e 25 nelle frazioni.