La cattura del col. Von Gablenz

La sera del 25 giugno la banda del “Russo” attaccò una vettura tedesca a due chilometri ad est del passo della Libbia. L’autista, ferito, perse il controllo dell’auto, che finì contro la scarpata; morì dopo un’ora. Gli altri due passeggeri, un autorevole ufficiale della Wehrmacht, il col. Maximilian Von Gablenz, e un altro ufficiale, furono catturati. Mancò il tempo per far sparire la vettura e i segni della sparatoria, perché sopraggiunse di lì a poco un convoglio germanico. I partigiani condussero i prigionieri verso Toppole, nella casa colonica di Stabbielle.

L’episodio confermava la percezione del comando germanico di un serio incremento dell’attività partigiana, con una continua serie di agguati che rendeva problematiche le comunicazioni lungo le arterie appenniniche. L’indomani mattina, a poca distanza, un commando partigiano avrebbe attaccato l’autovettura con la quale viaggiava il col. Müller, ufficiale della 94a divisione di fanteria.

Sin dalle prime ore del 26 giugno scattò una energica operazione anti-guerriglia nella zona tra la strada della Libbia e Montauto, che portò alla cattura di cinque giovani partigiani. Furono impiccati al passo della Scheggia.

Mentre si compiva questo dramma, incombeva sulla popolazione della zona la minaccia di una severissima ritorsione per la cattura di Von Gablenz. Il comando tedesco, giudicando l‘azione partigiana “in stridente contrasto con il diritto dei popoli”, intimò di rilasciare il colonnello entro la mattina del 28 giugno, pena l’uccisione di tutta la popolazione maschile rastrellata nel frattempo lungo la strada tra Borgo a Giovi, Montauto e Anghiari. La rappresaglia, considerata dai tedeschi legittima proprio “sulla base delle norme del diritto dei popoli”, avrebbe colpito 129 uomini e 80 donne. A quel punto il comando partigiano si mosse in due direzioni: da un lato si mise alla ricerca del “Russo” per indurlo a liberare i militari germanici; dall’altro decise di reagire con pari durezza alla minaccia. Con una lettera fatta recapitare il 28 giugno, rimarcò che la cattura di Von Gablenz, qualificandosi come “misura di guerra di un gruppo combattente dell’esercito di liberazione italiano contro l’esercito di occupazione tedesco”, non era affatto in contrasto con il diritto internazionale. Quindi lanciò un severo avvertimento: “I gruppi combattenti dell’esercito di liberazione italiano hanno rispettato finora tutte le regole stabilite dal diritto internazionale sul trattamento dei prigionieri di guerra. Entro i limiti in cui, però, vengano prese dal suddetto comando [tedesco] quelle misure che sono state minacciate – che sono contro il diritto internazionale e i diritti umani – fucileremo, a buon diritto, come rappresaglia tutti i prigionieri di guerra che si trovano attualmente in mano nostra e tutti i prigionieri che faremo in futuro”.

L’aspro faccia a faccia si risolse senza spargimento di sangue. I tedeschi prorogarono l’ultimatum di un giorno, grazie alla coraggiosa opera di mediazione condotta dal partigiano della “Pio Borri” Gianni Mineo. Nel corso del 29 giugno vennero rilasciati sia Von Gablenz che gli ostaggi italiani. Non fu però semplice rintracciare il “Russo” – insofferente a ogni disciplina – e costringerlo a restituire i due prigionieri. Lì per lì disse che i tedeschi potevano pure bruciare tutta l’Italia, ma lui il colonnello non l’avrebbe rilasciato mai; e ciò nonostante le insistenze dei suoi compagni del luogo, i quali temevano che tra gli ostaggi dei tedeschi potessero esserci anche loro famigliari. Poi però cedette. Furono date diverse versioni di questo cedimento. C’è chi sostiene che tornarono utili i buoni uffici dell’antifascista anghiarese Beppone Livi, di cui il “Russo” si fidava. Un altro partigiano di Anghiari di quella banda ha raccontato che la cosa si risolse solo quando lui gli puntò la rivoltella alle costole. Secondo il principale protagonista della vicenda, Gianni Mineo, fu lui stesso, senza particolari forzature, a trovare i giusti argomenti per ricondurre alla ragione il “Russo”.

La banda autonoma del “Russo”, avrebbe smobilitato intorno al 24 luglio, qualche giorno prima dell’arrivo degli Alleati ad Anghiari. In precedenza si scontrò una sola volta al completo con i tedeschi a Molin d’Agnolo, quando li sorprese a minare un ponte e intervenne per evitarne la distruzione. I partigiani asserirono di averne uccisi due e di essersi poi ritirati senza perdite. Nel complesso l’attività della formazione si caratterizzò per una lunga serie di minute azioni di pattuglia volte ad attaccare tedeschi isolati o di passaggio in moto, a localizzare le postazioni antiaeree germaniche e a comunicare agli Alleati il posizionamento delle batterie di artiglieria nemiche. Quindi la decisione di smobilitare, per la difficoltà di attraversare la linea del fronte. Fu allora che avvenne un altro episodio controverso, riferito da un partigiano di Anghiari: “La cassa della formazione venne suddivisa fra gli elementi della formazione ciascuno dei quali ebbe circa un migliaio di lire”.

 

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.