Riunione di membri della Carboneria nella ricostruzione del pittore Baldino (Ubaldo Mariucci).

La Carboneria tifernate

La morsa della repressione pontificia dovette indurre i massoni, ormai troppo esposti, a lasciare libero campo alla Carboneria, meglio attrezzata, per la segretezza delle sue sette, a portare avanti l’attività clandestina.
Che vi sia stata anche a Città di Castello una setta carbonara è certo, anche se le nostre conoscenze si basano su pochissimi documenti e, soprattutto, su una consolidata tradizione orale. Il fatto che, a differenza di altrove in Umbria, la Carboneria tifernate non sia stata scoperta dalle autorità di polizia, e che quindi manchino atti processuali in grado di fare chiarezza su personaggi ed eventi, spiega l’alone di mistero che ancora la circonda.
Giuseppe Amicizia, lo storico locale che ebbe pure modo di raccogliere le testimonianze di diversi protagonisti del Risorgimento a Città di Castello, riferendosi all’anno 1821 scrisse: “Anche qui, come altrove, molti giovani erano ascritti alla Setta dei Carbonari, che si proponeva di far libera l’Italia dallo straniero e di ottenere l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge”. Gli studiosi della massoneria Ugo Bistoni e Paola Monacchia suppongono che, dopo i fatti del 1815, i cospiratori tifernati abbiano provveduto alla “copertura” della loggia massonica cittadina, intrecciando la loro azione con quella Carboneria che stava raccogliendo proseliti soprattutto tra i ceti popolari.
Negli anni ’20 del XIX secolo la figura principale dell’organizzazione cospirativa tifernate dovette essere proprio un massone: il marchese Luigi Bufalini. Di antica famiglia tifernate, era nipote di quel Giulio Bufalini che capeggiò i rivoluzionari negli eventi di fine ‘700 e fu ucciso durante i moti del “Viva Maria”. Vittorio Corbucci, nel descriverlo come “gentiluomo perfetto, colto, di gran cuore, di bello spirito”, ricorda che a lui erano “legate le segrete cospirazioni”, ma ammette una assoluta carenza di notizie sulla sua vita fino al 1831: “ignorasi completamente cosa egli abbia fatto e se sia pur vissuto tra noi”. Alcuni documenti del 1826 relativi ad una sua complessa vicenda famigliare – si era separato dalla moglie Francesca Tolomei – ci informano invece che per circa tre anni Luigi Bufalini aveva vissuto lontano dal tetto coniugale, per poi andare a risiedere con la madre. Di quel lungo periodo di “latitanza” null’altro si sa.
L’opposizione clandestina incuteva timore nelle autorità pontificie, che cercarono di prevenirne l’espansione. Ne fa fede il severo argine frapposto da papa Pio VII con la bolla “Ecclesiam a Jesu”, pubblicata il 13 settembre 1821, e da papa Leone XII, con la “Quo graviora” del 13 marzo 1826. Ma per quanto il papa condannasse Carboneria e Massoneria, scomunicandone gli aderenti, il movimento cospirativo riuscì a diffondersi. Di Gubbio si è detto. Un’importante realtà carbonara esisteva a Spoleto già all’inizio del secondo decennio del secolo: i vertici superiori della società segreta del Napoletano la prescelsero come punto di irradiazione della Carboneria e centro di azione per una insurrezione in Umbria.
Inoltre la loggia massonica perugina “Concordia”, che prese a riunirsi proprio ai margini dell’Alta Valle del Tevere, in una tenuta di Polgeto, contribuì a promuovere nuclei carbonari in diversi altri centri umbri. Sul finire del secondo decennio dell’’800 ve ne furono a Foligno, Nocera, Passignano, Città della Pieve, Bettona, Bevagna, Piegaro e, appunto, Città di Castello.

I cospiratori incutevano tanta paura nelle autorità pontificie da indurre a diffidare di quanti portavano baffi e pizzetto, una recente moda che si riteneva adottata dagli individui “più marcati per la loro immoralità e licenza” e, in particolar modo, diventata segno distintivo di uomini dalle “massime equivoche e sospette in linea politica”. La delegazione apostolica perugina chiese dunque informazioni riservate su quanti portavano “i mustacchi e barbetta sotto il labbro inferiore in mezzo al mento”: il governatore tifernate ne identificò due, ma garantì che si trattava di persone innocue dal punto di vista politico. L’atteggiamento di sospettoso pregiudizio verso gli uomini con baffi e pizzo perdurò negli anni. Nel 1834 il vescovo tifernate Giovanni Muzi avrebbe attribuito idee liberali al pur cattolicissimo Giustino Roti, anche perché pareva volerle esibire “col barbuto suo mento”.

 

L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).