Alla fine del 1943 prese forma un radicale inasprimento della normativa sul servizio di lavoro. Divenne obbligatorio per gli uomini dai 16 ai 60 anni, inclusi gli sfollati da altri comuni, con severe sanzioni a carico dei renitenti e delle loro famiglie: “A coloro che non rispondono alla chiamata […] e alle persone, famigliari compresi, che favoriranno direttamente o indirettamente i contravventori, saranno ritirate o annullate o non distribuite le tessere annonarie”. Il Capo della Provincia di Perugia accompagnò l’invio del nuovo bando con queste considerazioni: “Sottrarsi all’obbligo del lavoro è viltà, ma nell’ora presente è da considerarsi diserzione e più ancora tradimento. […] Chi a questo ordine si sottrae sarà punito con le leggi che il momento impone senza indugi o dannosi pietismi”. Per quanto riguarda gli addetti all’agricoltura, si esonerava dalla chiamata chi poteva dimostrare di essere indispensabile alla produzione, sulla base di rigidi criteri; tuttavia l’esonero dal servizio del lavoro non dispensava dalla chiamata alle armi.
I bandi per l’arruolamento e per il servizio obbligatorio di lavoro continuarono a suscitare una generalizzata avversione in una popolazione sempre più stanca di guerra e di privazioni. Gran parte dei giovani delle classi di età interessate alle chiamate non ne volevano più sapere di combattere con i fascisti a fianco dei tedeschi e rigettavano il servizio del lavoro per la paura di essere poi deportati in Germania. I genitori temevano per la sorte dei propri figli e per gli esiti drammatici del prolungamento di un conflitto ormai considerato perso. Le famiglie contadine non intendevano più privarsi dell’essenziale apporto dei loro figli nel lavoro agricolo. Il rigetto degli obblighi sanciti dai bandi fu quindi vastissimo e portò tanti giovani a rifugiarsi nelle zone rurali che meglio si prestavano a sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine: le stesse zone dove avevano trovato rifugio ex-prigionieri slavi e anglosassoni, disertori, sbandati e renitenti della prima ora e dove, sebbene ancora in forma embrionale o disordinata, prendevano forma le prime formazioni partigiane. Il fenomeno della renitenza era quindi destinato ad alimentare in modo rilevante la lotta al nazi-fascismo. Sarebbe tuttavia improprio far coincidere renitenza e diserzione con la Resistenza. Anche nell’Alta Valle del Tevere la maggior parte di coloro che si dettero alla macchia scelsero di rimanere nascosti e pensarono più che altro a sfuggire alle ricerche da parte delle autorità.
Ancora convinto di poter raggiungere gli obbiettivi prefissati, all’inizio del 1944 il regime decise di ricorrere alle maniere forti. Il più immediato strumento di pressione nei confronti dei renitenti e delle loro famiglie fu il ritiro delle tessere annonarie; poi venne pure disposto – con grave impatto sulla vita quotidiana delle famiglie mezzadrili – il ritiro del permesso di mattazione dei suini per il consumo domestico. Si presero di mira anche i datori di lavoro, accusati di violare, con “colpevole acquiescenza”, le disposizioni impartite: “Le norme vigenti prevedono l’arresto dei datori di lavoro, i quali entro 48 ore dalla data della presente comunicazione non ottemperino al dovere di sospendere da ogni occupazione e dalla mercede i dipendenti, che siano renitenti alla leva o genitori di renitenti, per tutto il periodo della renitenza stessa”. […] Per far breccia nel muro della renitenza, le autorità fasciste tentarono anche di mitigare i toni verso gli inadempienti alla chiamata alle armi. Qualora si fossero presentati spontaneamente, sarebbero state sospese la sanzione penale a loro carico – una pena minima di due anni di reclusione – e le misure contro le loro famiglie.
La minaccia di rappresaglie a danno delle famiglie colpevoli di favoreggiamento mise in apprensione i renitenti. Ma trovarono pure delle contromisure. Emblematica la testimonianza di don Pompilio Mandrelli: “Noi suggerivamo questa posizione: cioè, quando ricevevano la cartolina si presentavano all’arma dei carabinieri, chiedevano il benestare per partire, andavano alla stazione ferroviaria [di Pietralunga] che era a 14 chilometri, e invece di prendere il treno risalivano le vallate per mettersi con gli sbandati sulle montagne. Così non creavano difficoltà alle famiglie e non provocavano rappresaglie da parte dei tedeschi. ‘Il ragazzo è partito, non sappiamo dove è andato’”. In alternativa, quanti vollero risparmiare ritorsioni contro i congiunti si arruolarono, ma disertarono appena possibile.
Un’altra scappatoia per sfuggire all’arruolamento nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana fu l’assunzione da parte dell’Organizzazione Todt. Si trattava di servizio di lavoro per i tedeschi, però permetteva di sottrarsi al richiamo alle armi. Inoltre era ormai assodato che si trattava di un’occupazione ben pagata, non lontana da casa e tutto sommato rispettosa della dignità degli operai. A ingaggiare manodopera erano anche impresari locali che avevano in subappalto cantieri finanziati dalla “Todt”. Di primo mattino un treno speciale portava i giovani lavoratori dall’Alta Valle del Tevere ad Arezzo. Le varie squadre venivano impiegate prevalentemente nella riparazione dei danni dei bombardamenti aerei sul territorio aretino. Il treno speciale riconduceva poi tutti a casa il tardo pomeriggio. Un altro centinaio di uomini lavoravano per la “Todt” a Ponte Presale, verso Badia Tedalda.
Le autorità fasciste mal sopportavano il ruolo svolto dall’Organizzazione Todt: troppo evidente la via di fuga che rappresentava per i giovani italiani contrari alla chiamata alle armi. Tuttavia non potevano contraddire i tedeschi, per i quali il lavoro dei civili nelle retrovie era ben più utile dell’eventuale contributo militare in prima linea del ricostituendo esercito fascista: sull’affidabilità bellica dell’Italia non facevano più conto. Il risentimento dei fascisti contro i giovani occupati nella “Todt” avrebbe avuto comunque modo di manifestarsi apertamente.
Per il testo integrale, con le note e le fonti delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.