Piantagione di tabacco sub-tropicale a sud di Città di Castello.
Tabacco sub-tropicale sotto garza a Lerchi.
Vecchie pratiche e nuova meccanizzazione nella coltivazione del campo di Rignaldello (maggio 1953).

Il tabacco sub-tropicale

 

Risale al 1953 la prima modesta sperimentazione di coltivazione sotto garza di tabacchi sub-tropicali delle varietà Sumatra e Round Tip, usate per fornire materiale da fascia per sigari superiori. Proprio le nubi che si addensavano sul futuro del Bright e del Kentucky indussero a continuare la sperimentazione, autorizzata dal Monopolio. Ai campi sperimentali di Palazzo di Carlo e Rignaldello se ne aggiunse un altro a Lerchi nel 1954. La qualità parve subito buona quanto ad aroma, colore ed elasticità. L’iniziale difetto di combustibilità fu superato in breve tempo.
Non si trattava solo di adattare il Sumatra all’ambiente locale; contestualmente bisognava assicurare un ritorno economico, aprendo spazi commerciali in un settore monopolizzato da mercanti olandesi. Le prime vendita all’asta di Milano incoraggiarono la Fattoria ed accrebbero il prestigio del tabacco sub-tropicale tifernate, tanto che nel 1958 si strinse un vantaggioso accordo di commercializzazione con la società olandese Delj-Maatschappijen. Intanto, nonostante le perplessità di alcuni, che ebbero eco anche nell’assemblea annuale della Fattoria, la superficie per la coltura dei sub-tropicali venne estesa e, a partire dalla campagna 1959, cominciò ad essere trasferita ai soci.
Fu lo sviluppo della coltivazione a imporre la costruzione di nuovi impianti industriali a Rignaldello. A partire dal 1958 vennero eretti i giganteschi capannoni che, oltre a rendere possibile l’intero ciclo di cura e di lavorazione dei sub-tropicali, servirono pure per il Bright e il Kentucky. Proprio in quel periodo il direttore Silvio Donadoni dovette ribadire con forza, a fronte del permanente scetticismo di qualche socio, che l’espansione della coltura del tabacco sub-tropicale non era “il frutto di aspirazioni velleitarie ma di un meditato convincimento”, apriva nuovi promettenti sbocchi produttivi e costituiva una provvidenziale “valvola di scarico” per impiegare il crescente numero di addetti in esubero. Affermò il direttore: “Se il Consiglio è convinto della logicità dell’impostazione economica del programma di espansione della coltura, ed è conscio dell’imminente pericolo di una riduzione massiccia dell’organico delle maestranze, può con tranquillità affrontare le critiche di quei soci, miopi e riottosi ad ogni sano progresso”. Il consiglio di amministrazione della Fattoria sostenne le argomentazioni di Donadoni e decise una ulteriore espansione della coltura.
A quell’epoca la Fattoria stava attendendo con impazienza che diventasse realtà la Comunità Economica Europea, con il superamento del rigido regime di monopolio della coltivazione del tabacco. Da anni, con lungimiranza, stigmatizzava le “antiquate concezioni di difesa di anacronistici privilegi” della maggioranza dei produttori italiani e invitava a “svecchiare la mentalità” e a giocare a tutto campo a livello continentale. Invece di temere la liberalizzazione del commercio, bisognava attrezzarsi alla sfida, riducendo i costi di produzione per adeguarli a quelli mondiali, meccanizzando la lavorazione e proponendo al mercato tabacco di prima qualità. Vi era consapevolezza che ciò avrebbe implicato un pesante ridimensionamento occupazionale, prospettiva temuta ma non giudicata ineluttabile: “Non ci piegheremo a questa odiosa misura fintanto che esista la possibilità di assicurare il pieno impiego delle nostre maestranze attraverso nuove attività e attraverso incrementi di produzione”. Anche per questo si ribadiva l’importanza strategica della coltura dei tabacchi sub-tropicali. Inoltre la Fattoria avrebbe chiesto al Monopolio, a lungo vanamente, una estensione ulteriore del Bright, da coltivare a rischio e pericolo dell’azienda per l’esportazione.
La Fattoria riteneva dunque ormai “indispensabile la massiccia riduzione delle spese di magazzino”. Nel corso degli anni ’50 una serie di rinnovi contrattuali a livello nazionale avevano garantito alle maestranze l’incremento dei salari e il loro adeguamento automatico al costo della vita (la scala mobile), l’equiparazione degli assegni famigliari a quelli dell’industria e infine, nel 1960, l’orario settimanale di 7 ore per 6 giorni lavorativi. Di volta in volta si parlò di “accordo gravoso”, di “aggravio notevole” per l’azienda, addirittura “insopportabile” in mancanza di incrementi delle tariffe corrisposte per il tabacco.
Rimase comunque agli amministratori della Fattoria e a Donadoni la soddisfazione di non veder radicarsi il sindacato tra le maestranze. Nel 1956, durante l’agitazione della categoria, non andò persa “neppure un’ora di lavoro”. Allo sciopero unitario dei sindacati CGIL, CISL e UIL del 1957 aderì appena il 30% del personale e solo il pomeriggio. Non ebbe successo nemmeno l’agitazione unitaria di qualche mese dopo, a parere del consiglio di amministrazione “rendendosi conto le maestranze degli sforzi compiuti dall’azienda per assicurare ai dipendenti un trattamento di miglior favore”. Né mancò allora un atteggiamento irridente nei confronti del sindacato, emblematico del clima paternalistico esistente alla Fattoria: presidente e direttore concessero agli operai di uscire un’ora prima per solidarietà con la categoria in sciopero.
Del resto era questa la politica perseguita da Donadoni: sottrarsi ad ogni confronto con il sindacato (quando la CGIL chiese incontri per esaminare la situazione della tabacchicoltura nell’Alto Tevere e alcuni problemi aziendali, rispose che non esistevano problemi aziendali e che le questioni della tabacchicoltura dovevano essere risolte a livello nazionale) ed elargire concessioni ai dipendenti, come “membri della grande famiglia della Fattoria”, quando il loro rendimento soddisfaceva gli standard richiesti.