Il censimento industriale ordinato nel 1824 dalla Delegazione Apostolica di Perugia rilevò che in città il mestiere di fabbro si esercitava “con riputazione”, ma – si legge nella relazione – “li manifattori per lo più capi di queste botteghe non ritengono al metodo delle grandi fabbriche”. In effetti essi vivevano alla giornata, ricavando modestissime soddisfazioni economiche dalle esigue commesse di lavoro che poteva esprimere la comunità locale. Un Registro Civico del 1811, redatto per censire i detentori dei diritti politici, identifica gran parte dei fabbri dell’epoca, molto probabilmente i proprietari di bottega: erano 18, oltre a un “chiavaro”.
Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento fu fabbro di fiducia della Cattedrale Valerio Picconi. Gran parte del suo lavoro consistette nella riparazione o fabbricazione di serrature, chiavi e catorci e delle parti in ferro di mobili e arredi sacri. Lo chiamarono infatti per rifare le punte dei candelieri, saldare il lavamano e smerigliare i ferri delle ostie; per produrre ferrature per i leggii, le “stampe dell’acquasanta” e le macchine del Sepolcro e dell’Esposizione; inoltre per riparare il pastorale, l’incensiere, i portalumi e il baldacchino del vescovo. Quanto al mobilio e agli infissi, era Picconi a curare la manutenzione delle ferrature di porte e finestre, a produrre e riparare grappe, tiranti e rampini. Nel 1800 ripristinò anche “il batocchio alla campana grossa”. In quei primi anni del secolo lo pagarono inoltre “per avere ribulita la testa a due scalpeli da muro e rifatto il taglio”, per la fabbricazione di “quattro campanelle grandi con sue majole” e “per avere fatto una ferrata per la fenestra ove si vende il vino, con sei bastoni e nove buchi”.
Solo episodicamente Picconi sostituì vetri o cristalli delle finestre, mansione spesso svolta dai fabbri. In quell’epoca era “vetraro” della Cattedrale Benedetto Matteucci. Nel luglio del 1811 un “turbine di vento e grandine” ridusse in malo modo le finestre del “cappellone” e del “lanternino della cupola”, costringendo a rimpiazzare ben 114 vetri. Quell’estate, almeno lui non ebbe certo a lamentarsi dell’eccezionale maltempo: lo chiamarono ancora per sostituire altri 65 vetri delle finestre del Duomo “di sotto” e “di sopra”.
Del “vetraro” Matteucci si ha traccia fino al 1811. L’anno precedente, con la morte di Valerio Picconi, la Cattedrale si era definitivamente affidata ai fratelli GioBatta e Giuseppe Leomazzi – quest’ultimo detto “Moccolino” – già da un paio d’anni al suo servizio. La loro attività è documentata fino al 1823, quando morì GioBatta. Si occuparono anche della manutenzione delle vetrate e, non essendo del tutto illetterati come il predecessore, ci hanno lasciato fatture e note scritte, “mano propia”, in un faticoso italiano. Ecco alcuni dei lavori da fabbro-vetraro, “fati per la chatedrale” nel 1812: “Achomodato la vetrata de la busola del domo di soto; […] meso vetri tra grandi e picholi; […] meso più pezi di trafila in più loghi; […] meso altri vetri ala finestra a piedi al schala; […] meso un vetro sano al chapelone, polito e achomodato le vetrate del domo di soto; […] achomodato la finestra dela chapela de la Madona del Grazie”. Gran parte delle commesse riguardarono però la manutenzione e la manifattura delle parti in ferro di porte e finestre, di mobili e arredi sacri, e la produzione e la riparazione di chiavi e serrature, chiavistelli e catorci.
Per i suoi bisogni, assai più modesti rispetto alla Cattedrale, il Seminario Vescovile nel primo decennio dell’Ottocento fece abitualmente ricorso a Francesco Mammelli, detto “Mastrino”, e nel secondo a Pietro Fiorucci. Nel primo quarto del secolo svolse saltuari lavori per gli istituti religiosi anche Stanislao Marsili.
Dal 1820, per ben trent’anni, il Seminario continuò ad affidarsi alla bottega dei Fiorucci, presa in mano dal figlio di Pietro, Tommaso o “Tomasso”, il cui nome compare consuetudinariamente nei registri di entrate e uscite dell’istituto. Era in attività almeno dal 1809, quando ricevette una cospicua commessa dalla Compagnia di Sant’Antonio Abate. Che Fiorucci fosse un “mastro” fabbro di un certo riguardo lo confermano le commesse delle autorità municipali, per le quali eseguì “lavori in ferro ad uso de’ Palazzi Governativo e Comunale”, perizie sullo stato dei lampioni e “le graticce con telai e incrociature di ferro inverniciato” che sostituirono i cristalli dei lunettoni del Campo Santo. Nel 1810 si presentava come “capo e direttore d’una bottega di fabro ferraro, stagnaro e vetraro”. Venuto a conoscenza del progetto dell’amministrazione napoleonica di illuminare le principali vie urbane e di far venire da Firenze “un modello di fanali a riverbero” per esaminarne l’efficacia, si impegnò a costruirli “dello stesso materiale e nella forma medesima […] per franchi dieci e centesimi sessanta di meno del prezzo del modello”. Si inserì nella trattativa anche l’ottonaio GioBatta Beni, offrendo un ribasso di almeno 25 paoli sul costo del modello inviato dallo specialista forestiero. Fiorucci era benestante: nel 1829, prima acquistò un locale per bottega, pagando in contanti 50 scudi “in moneta reale romana di paoli 10 lo scudo”, quindi prestò 115 scudi a un agricoltore. Alcuni anni dopo rilevò un podere a Pieve de’ Saddi. I documenti si riferivano ormai a lui come “possidente”. Rimase comunque legato all’ambiente artigiano; nel 1850 era “depositario” dell’Università dei Fabbri, con sede nella chiesa di San Sebastiano. Morì due anni dopo, senza alcun figlio che ne potesse continuare la bottega. Cessato il prolungato rapporto di lavoro con lui, il Seminario si sarebbe affidato, almeno fino al 1856, al fabbro e “vetraro” Pietro Mancini.