I disagi e le proteste dei residenti dei quartieri periferici contribuirono a far crescere la convinzione che l’espansione edilizia avrebbe dovuto assolutamente essere inquadrata nell’ambito di un piano regolatore. A quel punto, però, i progettisti si sarebbero trovati dinanzi al fatto compiuto di insediamenti sorti con poco criterio. Nel febbraio del 1957, il consiglio comunale, accogliendo una sollecitazione governativa in tal senso — gran parte dei Comuni italiani erano inadempienti quanto a programmazione urbanistica — dava il via ai lavori di compilazione del Piano Regolatore Generale per tutto il territorio comunale e di piani particolareggiati per lo sviluppo residenziale della periferia e di risanamento di alcune zone del centro storico. Lo redassero gli architetti Angelo Baldelli, Mario Coppa e Marinella Ottolenghi.
Presentandolo in consiglio comunale, il 18 marzo 1960, il sindaco Gustavo Corba non mancò di sottolineare il valore storico di quella seduta. Per la prima volta, la massima assise comunale dibatteva il futuro della città, alla luce di un piano organico nel quale i problemi di carattere urbanistico venivano considerati nel loro intreccio con i fattori economici e sociali e dopo un attento studio dell’evoluzione storica. Da questo punto di vista, il Piano rappresentò un importante fatto culturale. Negli anni successivi, esso sarebbe stato ritirato per una nuova elaborazione che tenesse conto degli sviluppi più recenti e di nuove esigenze, ma lo spirito e le indicazioni fondamentali del primo Piano mantennero la loro validità e, nei primi anni Sessanta, costituì l’imprescindibile punto di riferimento per lo sviluppo urbanistico ed economico di Città di Castello.
I redattori non nascosero le difficoltà: “A Città di Castello, il Piano Regolatore Generale arriva tardi: esaurita quasi integralmente l’attività edilizia dell’immediato periodo postbellico, attuati ed in corso di attuazione i programmi dell’edilizia sovvenzionata, che risolveranno gran parte dei problemi delle abitazioni malsane e sovraffollate, di difficile soluzione alcune varianti di scorrimento per la presenza nel settore orientale del capoluogo di aree impegnate dall’edilizia, e queste a loro volta di difficile ristrutturazione per l’episodicità dell’attuazione, la formulazione di un programma aderente di riassetto urbano, come ci fu richiesto nel novembre del 1958, poteva risultare obbiettivo illusorio o eccessivo”.
Un primo risultato concreto, mentre iniziavano gli studi preliminari, fu l’emanazione di precise disposizioni transitorie per riportare sotto controllo l’espansione edilizia, vietando che si procedesse alla lottizzazione dei terreni senza la preventiva autorizzazione comunale; sarebbero stati dichiarati edificabili solo dopo l’approvazione da parte del comune delle proposte di lottizzazione. Da quel momento, ogni iniziativa avrebbe dovuto seguire le indicazioni del piano particolareggiato di sviluppo in via di elaborazione. I progettisti, definendo il sistema di lottizzazione fino ad allora tollerato “un male operare urbanistico e amministrativo” con larga incidenza di abusivismo, ribadivano l’urgenza di “riportare nella legalità le situazioni attuali e quelle future, eliminando alla radice l’autodecisione del singolo che, elevato motu proprio il suolo registrato catastalmente come rurale, introduce nel mercato delle aree, […] lasciando tutti gli oneri di urbanizzazione ai privati acquirenti ed all’amministrazione comunale”.
Il fenomeno dell’espansione disordinata delle periferie investiva comunque l’intero Paese.
A Città di Castello, i progettisti rilevarono come la periferia ad oriente si fosse sviluppata senza prevedere spazi pubblici ed aree per attrezzature e servizi, problema che si poneva anche lungo la linea di espansione verso Riosecco; a meridione, gli impianti ed i campi della F.A.T. di Rignaldello rappresentavano ormai una barriera definita; oltre il Tevere, si verificava una ibrida presenza di insediamenti industriali, servizi pubblici e aree residenziali; la statale “Tiberina 3 Bis” si frapponeva come linea di demarcazione fra centro storico e periferia; solo verso settentrione, tra la strada di Belvedere e la linea ferroviaria, esistevano margini per una proficua progettazione di interventi, nonostante che alcune zone fossero già lottizzate. Si imponeva prioritariamente un intervento di saturazione delle aree interessate all’espansione, in modo da rendere più economica e razionale la disposizione dei servizi e delle infrastrutture da parte del comune. Contemporaneamente, bisognava dare una personalità ai quartieri in via di formazione, con adeguati collegamenti viari, luoghi di ritrovo per la popolazione, spazi verdi, centri commerciali ed aree designate ad ospitare futuri servizi pubblici, scuole, asili, ecc. Infine, l’auspicato sviluppo industriale doveva essere incanalato verso due aree attrezzate, a settentrione e a meridione della città.