Il disarmo dei partigiani della “San Faustino” e della Brigata Garibaldi “Pesaro”

Con la ritirata da Pietralunga a Umbertide, si concluse l’attività militare dei partigiani dell’Appennino settentrionale umbro-marchigiano. Quelli della “San Faustino” vennero concentrati dietro le linee e subito disarmati. Nella documentazione ufficiale, è il 15 luglio il giorno della conclusione della loro militanza. Lasciò profonda amarezza il vedersi trattati con scarsa considerazione. Raccontava Livio Dalla Ragione: “Fummo subito disarmati dagli Alleati: ci avevano sempre snobbato, non credevano in noi”. E ancora: “Ci consideravano così, come degli oggetti, o animali, che prima vengono adoperati, e poi si mettono da parte perché non servono più”.

A differenza di quanto stava succedendo nella valle del Nestoro, dall’altra parte del Tevere, i partigiani non furono utilizzati come guide o in servizi di pattuglia. Invece li si condusse a Casalina di Deruta, nella tenuta della facoltà di Agraria dell’università di Perugia; vi rimasero inoperosi per oltre un mese. Solo i comandanti tornarono utili agli Alleati. Con la nomina, il 3 luglio, di Luca Mario Guerrizio a questore di Perugia e di Luigi Peano di lì a poco a prefetto, due dei primi promotori della “San Faustino” si trovarono a ricoprire importanti incarichi nel processo di riorganizzazione dell’amministrazione pubblica e chiamarono al proprio fianco persone fidate. Come nel caso del comandante della banda Montebello Livio Dalla Ragione, che ebbe la nomina a commissario di pubblica sicurezza a Castiglion del Lago.

Provarono sentimenti di delusione e frustrazione anche i partigiani della Brigata Garibaldi “Pesaro”, che per alcuni giorni rimasero in condizioni difficili a disposizione degli Alleati tra la valle del Carpinella e Umbertide. Il loro comando reiterò la richiesta di poter continuare a combattere fino alla Linea Gotica. Ma inutilmente. Anzi, il comandante Giuseppe Mari arrivò a definire “ostile” il contegno dei britannici, al punto di lasciarli “privi di ogni rifornimento alimentare durante lo stesso periodo in cui svolgevano attività militare agli ordini del comando di divisione inglese”. Eppure non si trattava di un atteggiamento snobistico o di una sottovalutazione della forza militare della brigata. Annotò Mari nel suo diario: “Gli inglesi dicono di essere in imbarazzo appunto per il fatto che non si erano trovati ancora, durante la loro avanzata in Italia, davanti ad una unità partigiana numerosa e organizzata come la nostra”. Si può dunque ritenere che il comportamento degli Alleati fu condizionato in modo determinante da valutazioni di carattere politico. Così come, nel nominare i primi amministratori delle città liberate, scelsero con cura personalità politicamente moderate, pragmatiche, non “contaminate” da idee comuniste e marxiste, allo stesso modo trattarono con cautela, e talora con sospetto, le formazioni partigiane nelle quali la sinistra era egemone o comunque fortemente rappresentata.

La scena del disarmo dei partigiani, il 15 luglio, è descritta da Giuseppe Mari: “Gli uomini consegnano le armi. È uno spettacolo triste che fa stringere il cuore. Nessuno, che non sia stato un partigiano, può capire che cosa significhi per noi tutti questo disarmo. L’arma, per il partigiano non è soltanto un mezzo, uno strumento di difesa e di offesa, è anche, e soprattutto, una compagna, o qualcosa di vivo come una parte del corpo”. Diversa fu la sorte del distaccamento “Montefeltro” della Brigata “Pesaro” – che si formò dietro le linee tedesche nel suo territorio di riferimento – e del battaglione “Stalingrado”: i circa 160 slavi che lo componevano, con il comandante Brko (“Baffo”), ottennero di poter essere trasferiti in Jugoslavia per entrare nelle formazioni partigiane di Tito. Il 14 luglio, a Umbertide, si accomiatarono commossi dai compagni di lotta italiani.

I comandanti delle truppe alleate avevano ricevuto disposizioni di trattare i partigiani “con correttezza e con tatto”, invitandoli a ritornare alle proprie occupazioni nei territori liberati e spiegando che le armi da essi consegnate sarebbero servite per rifornire i compagni che combattevano oltre la Linea Gotica. Si raccomandava di usare lo strumento della persuasione, evitando scene di disarmo forzato. Nel contempo, mentre era vietato il loro impiego in ruoli di combattimento, si sollecitava a ricorrere pienamente alle loro conoscenze del territorio e alla loro esperienza.

Nell’insieme gli Alleati non considerarono affatto determinante l’apporto della guerriglia partigiana. Per quanto fossero consapevoli del contributo offerto dai partigiani negli ultimi mesi e potessero constatare già nei loro primi contatti che rappresentavano una significativa realtà nella valle, ne fanno raramente menzione nelle loro relazioni ufficiali.

La delusione provata dai partigiani nell’Alta Valle del Tevere non fu certo un fatto isolato. Un rapporto riservato del quartier generale alleato dell’agosto 1944 mise in discussione l’atteggiamento poco gratificante tenuto fino ad allora nei confronti di combattenti italiani, i quali più volte, nelle trasmissioni radio, erano stati spronati a lottare contro i tedeschi e a compiere azioni di sabotaggio: “Molti patrioti sono rimasti scioccati nel costatare, nei primi rapporti con le truppe alleate o con i rappresentanti del Governo Militare Alleato, che gli ufficiali alleati con i quali entravano in contatto sapevano poco o nulla delle attività patriottiche e di ciò che la propaganda alleata aveva detto e promesso”.

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.