I Comitati di Assistenza Civile

Con l’entrata in guerra dell’Italia, su indicazione governativa sorsero in tutti i comuni i Comitati di Assistenza Civile (C.A.C.). La massa delle forze armate era formata da uomini dei ceti meno abbienti, che sovente lasciavano in condizione di grave precarietà la famiglia. Alle mogli, ai bambini e agli anziani genitori di contadini e operai venne a mancare chi portava reddito, chi contribuiva a tenere saldi i vincoli famigliari, chi alimentava un sostegno affettivo e morale ancor più necessario in un’epoca di diffuse ristrettezze. Tale consapevolezza indusse le comunità locali a confidare nell’attività dei Comitati soprattutto per assicurare alle famiglie dei soldati meno abbienti una integrazione del sussidio statale da esse percepito –in molti casi giudicato insufficiente a garantire una dignitosa sopravvivenza – , a prendersi cura dei bambini talora lasciati a se stessi da madri costrette a trovarsi un lavoro, a coordinare la ricerca di informazioni sui soldati dispersi, caduti, feriti o prigionieri e ad aiutare i tanti analfabeti o semi-analfabeti nel tenere la corrispondenza  con i propri congiunti al fronte.

La composizione dei (C.A.C.) offre interessanti informazioni sulla società locale. Specialmente all’inizio, quando prevalsero lo spirito unitario e il fervore patriottico, nessuno si tirò indietro; né la borghesia, che guidava gran parte delle istituzioni, né i socialisti, che osteggiavano la guerra, ma erano consci che dai Comitati avrebbero tratto beneficio specialmente quegli strati sociali dei cui  bisogni si facevano interpreti.

A Città di Castello, il sindaco liberal-monarchico Urbano Tommasini, proprietario terriero, assunse solo la presidenza onoraria del Comitato, lasciandone la guida effettiva al dinamico e autorevole presidente del comitato di distretto della Croce Rossa Italiana, l’avv. Evaristo Bufalini. Il manifesto con il quale, il 3 giugno 1915, il C.A.C. si presentava all’opinione pubblica sanciva l’adesione di tutte le principali istituzioni e associazioni cittadine. Eccone l’elenco, con l’indicazione dei loro principali rappresentanti; tra parentesi è riportata la carica assunta nel Comitato: Giuseppe Corsi presidente e direttore della Cassa di Risparmio (cassiere); avv. Giulio Pierangeli, presidente della Società Operaia (segretario); Donino Pierleoni, presidente della Congregazione di Carità; Giulio della Porta, presidente dell’Asilo d’Infanzia; Giuseppe Bondi, presidente del Patronato Scolastico; Ugo Patrizi, deputato e presidente del Pellagrosario Umbro; Elpidio Torrioli, presidente della Società di Mutua Beneficenza; Antonio Gnoni, presidente delle Cucine Economiche; Eugenia Nicasi Traversi, presidentessa della sezione femminile della C.R.I.; Furio Camillo Fabbrini, presidente della Sezione Magistrale; Giuseppe Fabbri, direttore degli Ospedali Uniti.

Nel principale centro della valle, l’apprezzabile unità d’intenti iniziale non sarebbe durata a lungo. La minarono divergenze politiche non di rado viziate da preconcetti antagonismi personali. Fu uno scontro ininterrotto tra gli interventisti raccolti intorno al settimanale “Il Dovere”, il deputato Patrizi e i socialisti; gli stessi rapporti tra il sindaco e il presidente del C.A.C. Bufalini divennero tesissimi. Sullo sfondo – ma ciò avvenne un po’ ovunque – la delusione e le conseguenti polemiche per il modesto apporto della borghesia e dei proprietari terrieri alle raccolte di fondi per l’assistenza civile e di grano per l’alimentazione della popolazione più povera.

Ad Anghiari i primi firmatari dell’appello alla cittadinanza in favore del C.A.C.  furono il sindaco Telesforo Brizzi e l’on. Lando Landucci, deputato della destra liberale eletto nella Valtiberina toscana. Facevano parte del comitato promotore Angiolo Bartolomei, Oreste Vitellozzi, Livio Busatti, Anchise de Angelis, Amedeo Lapini, Gallo Galletti, il maestro Pietro Ghignoni e il segretario comunale Domenico Terrone. Si legge nella lettera di invito alla seduta di insediamento, tenuta presso il Comizio Agrario: “Egregio signore, opera altamente civile e umanitaria tutti, indipendentemente da ogni idea o partito politico e da ogni considerazione sulla necessità o meno dell’attuale conflitto, possono e debbono, nell’ambito delle loro forze, compiere in questi momenti terribili nei quali la Patria nostra è trascinata a un supremo immane cimento”. Né le fonti di cronaca, né quelle di archivio rivelano significativi contrasti all’interno del C.A.C. anghiarese.

L’organismo di Pieve Santo Stefano prese la denominazione di Comitato di Soccorso alle Famiglie dei Richiamati. Entrarono a far parte del direttivo, oltre al notaio Lorenzo Olivoni, sindaco e presidente del Comitato, il segretario comunale Carlo Vignini, l’avv. Adolfo Baldassarri, l’avv. Giuseppe Fanfani, l’ing. Andrea Collacchioni, l’arciprete don Antonio Chimenti, Carlo Piccoli, Eugenio Fanfani e Giovanni Fabbri. A condizionarne l’attività fu un’aspra controversia fra Olivoni e don Chimenti. Il sindaco si trovò costretto, insieme ad altri concittadini, a querelare per diffamazione l’arciprete, poi condannato – insieme al sagrestano e ad alcuni famigliari – a oltre 4 mesi di detenzione col beneficio della condizionale. Il denaro da lui dovuto per risarcimento e spese processuali fu devoluto dai querelanti alle Cucine Economiche (L. 500) e al Comitato di Soccorso (L. 50). Una così spiacevole bega paesana in epoca bellica offrì l’opportunità ai socialisti – ancora poco organizzati a Pieve – per esprimere severe critiche. Il periodico «La Rivendicazione» non ebbe dubbi a mettere sul banco degli accusati l’arciprete Chimenti, definito “duce e padrone di questo clericalissimo paese”, noto “per la sua intransigenza settaria e pel suo autoritarismo che ne fanno un poliziotto in veste talare”. Chimenti avrebbe osteggiato un giovane sacerdote, don Ricci, che officiava la chiesa della Madonna dei Lumi, fino a provocarne l’allontanamento. Nel contesto della spaccatura della popolazione provocata dalla rivalità fra i due sacerdoti, Chimenti diffuse un “libello diffamatorio che, come pugnale avvelenato, doveva colpire alle spalle la famiglia del sindaco Olivoni”.

Forti connotati clericali assunse il C.A.C. della vicina Caprese. Il sindaco Eligio Pasqui, che ne fu presidente, ne chiamò a far parte i sacerdoti don Dionisio Bigiarini, don Egisto Pulcini, don Mario Bolgi, don Pasquale Cardinali, don Tobia Romolini, don Epidelforo Valdesi, don Augusto Massi, don Callisto Ricceri, don Giuseppe Cardinali e don Natale Cardinali. Cadde praticamente sui parroci, che garantivano un contatto capillare con la popolazione e ne potevano pertanto meglio conoscevano i reali bisogni, l’onere della selezione delle famiglie aventi diritto al sussidio integrativo e della sua distribuzione. All’Ufficio Notizie di Caprese, che agiva in stretto contatto con la sezione di Arezzo, furono preposte tre maestre elementari: Rosina Andreani, Angiolina Gregori e Dina Norcini.

Secondo il C.A.C. capresano, comunque, la popolazione rurale del suo territorio riusciva a sopravvivere decorosamente con i soli sussidi concessi ai richiamati dalla Stato. Persino i socialisti, generalmente assai critici verso gli organismi egemonizzati dal clero, ammisero che le contadine di Caprese si accontentavano dei sussidi statali. Considerazioni analoghe furono espresse anche a Monte Santa Maria Tiberina. Nel formare il suo C.AC., il commissario prefettizio Paolo Giuffrida, che reggeva allora le sorti dell’amministrazione municipale, dovette ponderare con estrema attenzione la rappresentanza delle frazioni; la persistente rivalità tra Monte Santa Maria e Lippiano giunse al punto di paralizzare la vita amministrativa del comune.

Una significativa presenza clericale vi fu pure nei C.AC. di Sangiustino, presieduto dall’arciprete Eugenio Castellari. In quello di Montone, dove il sindaco, il medico socialista Arsenio Brugnola, affidò la presidenza prima a Mariano Reali, poi a Sante Nunzi, ricoprirono gli incarichi di cassiere Mariano Reali e di segretario don Giuseppe Vannocchi, uno dei quattro sacerdoti che ne facevano parte.

Il C.A.C. di Umbertide fu costituito dalla giunta municipale, guidata dal sindaco Francesco Andreani. Il comune contribuì subito con la cospicua somma di L. 4.000, in considerazione del fatto che – si legge nel verbale – “le oblazioni del pubblico non possono essere vistose, per l’esiguità dei cittadini in condizioni di fare offerte generose”. Sin da allora si instaurò un proficuo rapporto di collaborazione nella gestione delle emergenze sociali tra la maggioranza e l’opposizione socialista, che aveva in Giuseppe Guardabassi un leader molto autorevole e ascoltato.  Non mancarono comunque momenti di forte dialettica politica. Come nel novembre del 1916 quando, dopo aver approvato all’unanimità il contributo forzoso a beneficio dell’assistenza civile, esentando però i meno abbienti, Guardabassi fece mettere a verbale: “A nome dei socialisti umbertidesi, che in quest’ora hanno matematica certezza d’interpretare il sentimento della grande massa proletaria, invito il Consiglio Comunale ad emettere un voto, da trasmettersi ai nostri governanti, perché da essi nulla venga trascurato acciocché una pace sollecita torni a rendere tranquilla l’umanità e restituisca al proficuo lavoro le braccia distolte per seminare la morte e per raccogliere maggior messe di odi, forieri di nuove carneficine”. Il sindaco Andreani non accolse il voto: “Siamo tutti ad augurare la pace, ma i nostri soldati combattono la santa battaglia in difesa della giustizia e del diritto, e quindi non è lecito augurare altra pace che non sia una pace vittoriosa, redentrice e reintegratrice dei diritti e delle libertà delle nazioni minacciate dalla violenza teutonica”.

A Sansepolcro, il sindaco Federigo Nomi lasciò l’iniziativa alla locale Società di Mutuo Soccorso fra gli Artigiani, detta comunemente Società Operaia, che si era mossa con prontezza. Il consiglio comunale determinò i criteri di sostegno finanziario al C.A.C., invitando i benestanti ad elargire contributi proporzionali al reddito denunciato per la tassa di famiglia municipale o comunque al reddito effettivo. Tuttavia la raccolta di fondi si rivelò problematica sin dall’avvio. Il 17 luglio 1915 il periodico «La Rivendicazione» scrisse di una lista iniziale di sottoscrittori affissa fuori bottega Turchi, all’angolo di piazza Vittorio Emanuele. Il primo ad aver contribuito, con L. 100, era stato l’avvocato socialista Luigi Massa; tra i primi l’altro leader socialista Luigi Bosi, con L. 50. Il giornale commentò: “L’esempio dei nostri compagni che, a quanto sappiamo, non sono dei signori, ma piuttosto… tutt’altro, dovrebbe servire per qualcosa e per qualcuno”. E ancora: “La sottoscrizione in genere ha reso discretamente, ma i più avari, i più spilorci, non si erra dicendo si sono mostrati, come sempre i più quattrinai”.