Il Registro Civico del 1811 elencava ben 56 calzolai tifernati, il numero di gran lunga più cospicuo tra tutte le categorie di artieri.
È solo con il successivo censimento a fini fiscali dei primi anni ’50 che lo scenario assume maggiore precisione. Le autorità municipali, prendendo in esame l’esercizio del 1850, reputarono in prima istanza di dover sottoporre a tassazione 24 calzolai, tutti per una modica somma annuale tra i 20 e gli 80 baiocchi. Ma negli anni successivi l’imposizione fiscale riguardò solo tre di essi, e per la cifra più consistente di sc. 3,50: Agostino Bartolucci (il “Fabbrino”), Benedetto Cesarotti e Stefano Montani. Erano queste, pertanto, prima dell’Unificazione italiana, le tre maggiori botteghe.
La relazione inviata dalla magistratura tifernate nel 1851 tratteggiava l’evidente precarietà di tale settore artigianale: “Niuno de’ calzolari di questa città ha fornita la di lui bottega di lavoro a comodo de’ richiedenti, e niuno è provvisto delli occorrenti corami, e cuoj, per cui sono costretti prendersi il tutto a minuto, e lavorare essi stessi onde ricavare il prezzo della giornata al mantenimento tanto proprio, che della famiglia. […] Più malagevole è la condizione delli artisti della campagna, poiché ritraggono la giornata per il loro sostentamento nel solo caso che son chiamati ad opera dalle famiglie del circondario.”
Un altro documento di quell’epoca conferma le difficoltà dei calzolai tifernati, spinti dalla penuria di lavoro a chiedere al Municipio misure protezionistiche per colpire “di dazio comunale il lavoro di detta arte, che” – scrissero – “in pregiudizio di essi s’introduce a vendere quivi dalle estere comuni”. A dimostrazione della loro penuria di mezzi finanziari, diversi calzolai dovettero far ricorso alla Cassa de’ Risparmi per prestiti all’indomani della sua fondazione.
In realtà si può supporre che la condizione di almeno alcuni calzolai urbani non fosse delle peggiori. Pochi anni prima, nel sottoscrivere la petizione per l’espulsione dei gesuiti da Città di Castello, Benedetto Cesarotti vantava dieci lavoranti, Stefano Montani cinque; anche altri calzolai che sostennero il documento vi citarono il numero dei loro operai o garzoni: due Camillo Carletti, quattro Florido Boriosi, cinque Gioacchino Savelli, due Luigi Lensi, ben otto David Garagalli.
In effetti nel 1873 risultavano ancora in attività, e citate tra le principali, le botteghe di Agostino Bartolucci, di Stefano Montani, dei fratelli Giuseppe e Luigi Martucci, di Cristoforo Cavallucci (fratello di Gaspare) e di Francesco Cesarotti. Quella dei Montani era antica. Stefano l’aveva ereditata insieme al fratello Felice dal padre Pietro e dal nonno Francesco. Quando, ormai anziano, Felice smise di lavorare, cedette il laboratorio ad Annibale Niccolini. I Martucci non limitavano la loro attività imprenditoriale alla calzoleria: erano infatti proprietari anche di una fornace.
Francesco Cesarotti aveva preso in mano il laboratorio già del nonno Francesco e del padre Benedetto, al n. 42 di corso Vittorio Emanuele II2. L’“antica e premiata” calzoleria Cesarotti non era che una piccola bottega artigiana, con tre banchi da lavoro e otto piccole seggiole, tante quante potevano ospitare operai e garzoni nell’assai ipotetico caso di massimo livello occupazionale; aveva inoltre in dotazione due macchine da cucire, una a pedale e l’altra a mano – abbastanza da potersi pubblicizzare come “laboratorio a macchina” –, una certa quantità di “gambe” e “gambaletti” per stivali e 247 paia di forme assortite. Cesarotti fabbricava scarpe e stivaletti sia da uomo che da donna e di ogni misura; naturalmente eseguiva le consuete riparazioni di risolatura, di rifilatura e di “rimonta”. Nel 1886 ebbe l’appalto per la fornitura e la riparazione delle calzature per i carabinieri tifernati. Figura di rilievo della categoria, negli anni ’70 ne presiedette la Società di Mutuo Soccorso. Alla fine del secolo aveva già cessato l’attività. Restava però in corso Vittorio Emanuele II un negozio di calzoleria dei Cesarotti: era stato avviato dallo zio Giuseppe e continuato dal cugino Angiolo.
Il censimento del 1881 dette un numero al nutrito gruppo di calzolai e ciabattini. Nel comune ce n’erano 117, 73 dei quali “padroni di bottega”. Qualche negozio offriva in vendita calzature di produzione industriale, ma la popolazione acquistava per lo più scarpe e stivaletti fabbricati su misura dagli artigiani locali. Ciò sarebbe avvenuto ancora per qualche decennio.
Gli estratti dal volume Artigianato e industria a Città di Castello tra ‘800 e ‘900 mancano delle note