Gli “imboscati”

Nella cronaca e nei documenti altotiberini la questione degli “imboscati” diventò oggetto di aspre polemiche nel 1916. Già all’inizio dell’anno il periodico socialista “La Rivendicazione” esprimeva il suo plauso per il decreto luogotenenziale contro l’imboscamento, sperando servisse a stanare quei raccomandati che fino ad allora erano riusciti a schivare i rischi del fronte: “Ci dispiace per certi pezzi grossi di nostra conoscenza che – ci si dice – si erano adoperati a più non posso per accomodare i loro correligionari”. Il corrispondente da Sansepolcro era stato ancor più caustico: “[…] severi ed inesorabili siamo contro gli eroi della poltrona, i strateghi del caffè, i militi dell’armiamoci e partite, i beceri che dopo di avere sostenuta in ogni modo ed in ogni luogo la utilità, la necessità della nostra partecipazione alla guerra, rimangono qui a far chiasso, a salutare coloro che partono, a leggere e commentare il giornale, a passeggiare vagabondeggiando le vie della città. Ed a loro, a queste carogne ancora una volta la nostra domanda: Quando partite?”.

Fu però a maggio del 1916 che i toni si fecero ancor più accesi. I socialisti bollarono spregiativamente come “conigli” quegli interventisti che, alla chiamata della loro leva, si mostravano tutt’altro che patrioti: “[…] cercano, e, disgraziatamente, a forza di raccomandazioni e di scappellate, ottengono dei posti nelle officine, in compagnie di sussistenza o s’imboscano nelle file degli ufficiali della territoriale”. E quando il cattolico “Voce di Popolo” maliziosamente constatò quanti pochi garofani rossi si fossero mostrati in pubblico in occasione del Primo Maggio, il giornale socialista non perse l’occasione per una tirata anticlericale: “[…] osserviamo ai preti che i nostri compagni son tutti al fronte a combattere, mentre i loro colleghi son tutti imboscati in qualità di cappellani, nella sanità, sussistenza e corpi affini; e se i pochi [socialisti] rimasti osano ancora portare all’occhiello il nostro simbolo, gli è perché noi non abbiamo ammainato vergognosamente la nostra bandiera, come hanno fatto i preti, che si sono fatti paladini della guerra, in tutti i paesi, tradendo la mistica e umana dottrina di Cristo”. Non meno pungenti suonarono le insinuazioni dei socialisti nei confronti di Giulio Pierangeli, espulso dal partito l’anno prima e diventato – a loro dire – “guerraiolo sfegatato” e redattore “sotto molteplici pseudonimi” de “Il Dovere”; lo accusarono di aver “tentato di imboscarsi”, sfruttando le conoscenze massoniche e l’appoggio dell’amministrazione della Congregazione di Carità, di cui era segretario.

Anche il fronte interventista aveva però da rinfacciare qualcosa ai socialisti. “Il Dovere” prese di mira i volontari tifernati della Croce Rossa, alcuni dei quali militavano nel partito socialista; a suo parere, il servizio che prestavano negli ospedali militari locali, per quanto utile, costituiva un privilegio, perché li esentava dall’operare in prima linea: “Anche loro debbono sopportare gli oneri e i sacrificii della guerra”. In effetti, sulla base di nuove disposizioni governative, un gruppo di militi della Croce Rossa di Città di Castello dovette poi partire per il fronte. Paradossalmente a Sansepolcro fu un soldato di simpatie socialiste a protestare, appena tornato in licenza, nel vedere che si erano iscritti alla Croce Rossa, e restavano in città, dei giovani di note idee interventiste, mentre combattevano in zona di guerra militari della Territoriale ben più anziani.

Echi polemici giungevano dunque da tutta la valle. E continuarono a  vedere soprattutto “La Rivendicazione” in prima linea. Nel settembre del 1916 una cronaca da Umbertide informò della morte in combattimento del maestro socialista Domenico Floridi, sottotenente della Territoriale “comandato” più volte al fronte; eppure, secondo il giornale, delle lettere anonime lo avevano fatto passare per imboscato solo perché aveva goduto di qualche licenza per riabbracciare i famigliari. Nel commemorarlo – era il terzo socialista caduto al fronte -, Giuseppe Guardabassi inveì contro i “vigliacchissimi anonimi”, a suo dire guerrafondai che pontificavano dai caffé e dalle osterie: “Iene sitibonde di sangue sarete ormai paghe”.

Anche ad Anghiari la sinistra neutralista e pacifista ebbe molto da ridire su quei “messeri camuffati da patriotti” che avevano trovato modo di imboscarsi nei loro piccoli impieghi allo scoppio delle ostilità, mettendosi al sicuro da ogni pericolo e avendo così agio di “accumulare e arrotondare i loro stipendi”. Concetti analoghi, in una prosa intrisa di vernacolo e di riferimenti a situazioni locali, espresse il corrispondente de “La Rivendicazione” di Sansepolcro: “Dispiace assai davvero constatare come coloro che furono appassionati fautori della nostra guerra e gli altri che da tanto tempo anelavano d’impugnare la ‘santa carabina’ sieno a casa o perché fattisi improvvisamente necessari o perché malati… di punte, di virgola, di mal di cuore, del mal di budellone, o perché dirigenti o digerenti maccheroni con e senza sugo”.

Testimonianza emblematica di quanto fosse diffusa da un lato la tentazione di imboscarsi, dall’altro la caccia all’imboscato stesso, l’offre una lettera dal fronte di Venanzio Gabriotti: “A proposito d’‘imboscature’, si sappia che in gergo militare questa parola non ha più confini. Per noi e, forse non sempre a ra­gione, diviene imboscato perfino il porta fe­riti! Non parliamo poi. di quelli che stanno alle cucine, alle salmerie, ai carreggi ecc.!” . Lui stesso, ufficiale ligio al dovere, rifiutò di recuperare da un forte attacco febbrile restando per un po’ in un comodo letto: “Al mattino i 39 gradi erano discesi a 37.5 e non volendo che qualcuno potesse pensare che avevo colto la prima occasione per ‘imboscarmi’ in un Ospedale, ripartii. Feci della fatica, è vero, ma dopo due giorni sono completamente ri­stabilito, lieto dell’accaduto per l’occasione fornitami di dormire nel letto fra le lenzuola!”.

La polemica scese di tono nel 1917. Anche perché le necessità militari indussero a varare quelli che vennero definiti “provvedimenti contro gl’imboscati”, estendendo l’obbligo del servizio militare e la chiamata sotto le armi. Con il protrarsi della guerra e l’aggravarsi delle condizioni di vita, era un altro genere di imboscamento a toccare nel vivo l’opinione pubblica: non si trovavano a vendere – e qualcuno li aveva “imboscati” – generi di prima necessità e tale penuria suscitò veementi proteste.

Che il problema restasse vivo lo dimostra comunque un significativo appello lanciato da “Il Dovere” alla popolazione rurale nelle settimane successive la rotta di Caporetto. I sostenitori della guerra compresero che il malcontento popolare si fondava su basi concrete e che il successo della resistenza contro l’offensiva degli Imperi Centrali richiedeva l’apertura di un dialogo con i ceti sociali più ostili al conflitto. L’articolista tentò di abbattere ogni diffidenza immedesimandosi nella realtà contadina e ammise apertamente la gravità del fenomeno dell’imboscamento: “È vero: il nostro sangue ha bagnato tutti i campi di battaglia, le nostre carni sono state lacerate in tutti i modi. Abbiamo dovuto lasciare i campi, le officine, le nostre donne, i nostri figli per andare a combattere e morire, mentre tanti altri, cittadini come noi, son rimasti vicino a casa o in luoghi sicuri da ogni pericolo. Sono stati troppi gl’imboscati, non lo nego e fa male, molto male vedere tali ingiustizie, perché se è un dovere servire e difendere la patria, devono servirla e difenderla tutti, senza nessuna distinzione”. “Il Dovere” promise che gli imboscati, una quantità crescente dei quali veniva comunque stanata, a guerra conclusa sarebbero stati svergognati. Prima, però, bisognava vincere.