Una decisa e condivisa svolta verso i sentimenti patriottici si verifica a partire dal 1846, al momento dell’elezione al papato di Giovanni Maria Mastai Ferretti, col nome di Pio IX (16 giugno) e quindi la concessione dell’amnistia per i reati politici (16 luglio). L’entusiasmo a Città di Castello in quel momento dovette essere grande, e non fu certamente inferiore a quello dimostrato non solo nello Stato pontificio, ma in tutta Italia e oltre. La poetessa Assunta Pieralli scriveva versi che potremmo definire alati, in cui affermava: “Viva Pio, da cui trepida, intenta / Pende Italia con tanto desio; / che l’amor d’ogni gente redenta, / Che pastor d’ogni gente sarà: / Dio cel diede né il dono di Dio / Forza avversa rapirci potrà”.
Presto però venne un richiamo a moderare le manifestazioni di giubilo, sia da parte del cardinale Gizzi, che da parte delle autorità locali; non tutti infatti ai vertici vedevano di buon occhio la improvvisa accelerazione dell’affermarsi di nuove idee sotto il pretesto di osannare un papa “liberale”.
Ma le forze nuove che emergevano nella città non frenarono l’entusiasmo. Il 29 settembre dello stesso anno, in seguito alla promulgazione del decreto di amnistia di Pio IX, agli Zoccolanti si svolse un banchetto patriottico, nel quale non vi era alcuna distinzione di ceti. Il banchetto si concluse con un corteo nel quale dominava la bandiera pontificia. Emerge tra i protagonisti un nuovo nome, quello di Filottete Corbucci, oratore ufficiale in quel giorno e promotore dell’iniziativa. Egli, insieme a GioBatta Signoretti, è uno degli homines novi della realtà tifernate di quegli anni. Il Corbucci, figlio di un avvocato e libraio (Lodovico), nella cui bottega si diffondevano documenti clandestini, era venuto a contatto con i liberali perugini durante gli studi universitari, quando aveva conseguito la laurea in legge. In effetti, la nuova élite era rappresentata allora proprio dagli esperti di legge, quasi una “nobiltà di toga”, potremmo dire. Fu lui a condurre una stringente campagna e a rivolgere una petizione al Comune per ottenere che fossero cacciati i Gesuiti, paladini della reazione, cosa che fu pubblicamente richiesta dai dimostranti nella stessa data del 29 settembre 1846, al grido di “Viva Pio IX, Viva papa Ganganelli”. I Gesuiti, più volte per secoli richiesti dal Comune, solo nel 1844 si erano di nuovo insediati in città; il loro convitto era stato raccomandato dal vescovo Muzi al nuovo papa ed avrebbe assunto il nome di “Pio”. Di fatto i Gesuiti sarebbero stati costretti ad andarsene nei primi mesi del 1848.
Nel 1847 il clima favorevole al papa non era cambiato: per l’Accademia del Venerdì santo di quell’anno Giustino Roti scriveva versi che esaltavano il papa chiamato “Angelo del nostro secolo” e comprendevano anche un poemetto in terzine dal titolo “L’angelo d’Italia alla tomba di Gesù Cristo”, una sorta di visione nella quale Pio IX viene presentato come l’unico liberatore dai mali presenti. Non diversi erano i sentimenti in ambito popolaresco: secondo il racconto tratto dal Diario di un testimone oculare, Tommaso Rossi, sui muri delle case di Città di Castello, ed in particolare su quella dello stesso Rossi (che era poi addetto alla riscossione del dazio), vi era la scritta “Viva Pio IX”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Antonella Lignani nel volume Alvaro Tacchini – Antonella Lignani,“Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).