Reparto meccanici nell’ex chiesa di Sant’Antonio.
Il reparto falegnameria.
Gino Godioli, insegnante di laboratorio meccanici.

Corsi diurni ed ente morale

Nell’anno scolastico 1924-1925 la Scuola cominciò a ristrutturarsi. Un cambiamento graduale, però profondo. Prese infatti il via un corso pomeridiano di avviamento professionale collegato alle classi 6a, 7a e 8a elementare. Ormai tante famiglie preferivano far apprendere il mestiere ai loro ragazzi nei laboratori della scuola invece che nelle botteghe. Si legge in una relazione didattica: “Le famiglie operaie migliori capiscono che mandare i loro ragazzi a bottega con l’attrattiva di un salario settimanale modestissimo ma crescente non giova ai ragazzi stessi, i quali giungono a imparare il mestiere molto lentamente. Il capo bottega di regola non ha né il tempo né la pazienza per insegnare al ragazzo, che viene adoperato per i servizi di commissione, per qualche lavoro di fatica molto semplice […]”.

La frequenza dei corsi diurni assunse carattere regolare nell’anno successivo. Il corso serale continuò a richiamare soprattutto giovani operai della campagna e muratori di città, ma in misura sempre minore. Del resto, si constatò, “le cause della decadenza del corso serale sono da ricercare principalmente nel successo dei corsi diurni; i ragazzi vengono ai diurni e i grandi, dato che la scuola funziona dal 1909, sono stati in gran parte già allievi”.
Per la sua umile laboriosità, la sua tenacia e l’intelligenza della sua gestione, la Scuola Operaia si era guadagnata rispettabilità ben oltre l’ambito locale. Un’ispezione ministeriale l’aveva annoverata “fra le scuole libere di notevole importanza”. Al di là del pur gratificante riconoscimento, ciò significò afflusso di maggiori sovvenzioni pubbliche: il Ministero dell’Economia Nazionale portò il suo contributo a L. 5.000, la Provincia a L. 1.000, la Camera di Commercio a L. 3.000.
Il bilancio della Scuola era lievitato. Nel 1925 le spese ammontarono a L. 68.847, coperte per l’81,2% dalla rendita del patrimonio Bufalini e per il 16,7% da contributi pubblici. Inoltre 1.400 lire furono il frutto del lavoro dei laboratori della Scuola. Era iniziata infatti la consuetudine di effettuare lavorazioni conto terzi per alleviare le condizioni del bilancio. Tuttavia vi si ricorse con moderazione, soprattutto per ragioni didattiche. A metà del decennio dunque, soprattutto in virtù della rendita del patrimonio rurale lasciato da Gio:Ottavio Bufalini, la Scuola Operaia sembrava avere rosee prospettive.
Il 1927 fu uno spartiacque nella storia della Scuola. Un regio decreto del 24 aprile 1927 istituì l’Opera Pia “Officina Operaia G. O. Bufalini” erigendola in ente morale e riconoscendole autonomia di amministrazione. Lo statuto ne affidò la gestione a un consiglio di cinque membri, tre in rappresentanza della Congregazione di Carità di Città di Castello, due di quella di San Giustino. Il presidente sarebbe rimasto in carica per quattro anni.
Il primo consiglio di amministrazione si insediò il 29 ottobre 1927. Città di Castello vi delegò Dario Nicasi Dari, Amedeo Corsi e Leone Floridi; Sangiustino nominò Domenico Bastianoni e Giuseppe Zanchi. Divenne presidente Nicasi Dari; lo sarebbe stato fino al luglio 1941.
Le trasformazioni di carattere statutario non mutarono il volto della Scuola, che con i suoi vari corsi continuò ad attrarre giovani interessati a molteplici specializzazioni dell’industria e dell’artigianato: nel 1928 si iscrissero 93 fabbri meccanici, 74 falegnami, 52 muratori, 18 decoratori, 5 scalpellini, 4 stuccatori, 5 intagliatori, 2 intarsiatori, 3 vasellai, 7 ricamatrici, 5 sarte e una modista.