Liviero si inserì in una società ancora prevalentemente agricola. Nel 1911 Città di Castello, il centro più cospicuo della diocesi, contava 26.987 abitanti, ma di essi ben 20.681 vivevano in campagna. Provenendo da realtà povere, il nuovo vescovo non poteva non cogliere con immediatezza i problemi sociali del territorio. Alcuni dati permettono di capire quanto, per vasti settori della popolazione, fosse ardua la pura e semplice sopravvivenza: ammontavano a oltre un migliaio le famiglie indigenti ammesse all’assistenza sanitaria gratuita; in città, su circa 6.300 abitanti, una media giornaliera di 500 persone venivano assistite in inverno dal comitato delle Cucine Economiche con la distribuzione di un pasto caldo nei locali dell’ex convento di Sant’Antonio; la popolazione rurale era ancora afflitta dalla piaga della pellagra e 900 contadini poveri affetti dalla malattia avevano diritto alla concessione gratuita del sale. E ancora: nel decennio 1900-1909 nel comune tifernate erano morti 2.520 bambini sotto i 10 anni di età, il 39% del totale dei defunti; nello stesso arco di tempo quasi un quinto dei figli erano nati al di fuori del matrimonio, con una media annuale di 110 nati illegittimi e poi riconosciuti da uno o da entrambi i genitori e di altri 51 rimasti illegittimi o addirittura esposti e presi in cura dal locale Brefotrofio.
Tale scenario di elevata mortalità infantile e di fragilità dell’istituto famigliare avrebbe indotto Liviero a una decisa azione pastorale e assistenziale. Anche perché il contesto di diffusa indigenza e precarietà sociale sarebbe rimasto a lungo sostanzialmente inalterato: nel 1921, su una popolazione residente di circa 31.000 abitanti, i medici condotti calcolarono in 6.563 i poveri (il 23,51% del totale); ma la miseria affliggeva ben il 43% della popolazione urbana.
Eppure Città di Castello non era più la realtà emarginata e sottosviluppata di qualche decennio prima. L’inizio del Novecento fu un periodo di grande vitalità e proprio a cavallo di quel 1910 in cui arrivò Liviero nuovi fermenti stimolarono la crescita economica e sociale. L’industria divenne una solida presenza soprattutto in virtù delle tipografie. Una certa rilevanza occupazionale assumevano tre officine meccaniche, due falegnamerie alcune fornaci e il Laboratorio Tela Umbra.
Città di Castello si mostrò assai permeabile anche allo spirito cooperativo. Videro la luce società cooperative tra i tipografi, i fabbri meccanici, i falegnami e i lavoratori del settore edile. Anche i proprietari terrieri più avveduti intuirono l’importanza strategica di unirsi in consorzio e nel 1911 dettero vita alla Fattoria Autonoma Consorziale Tabacchi. L’influenza di cospicui possidenti di più moderne vedute stava finalmente scuotendo un ambiente troppo a lungo adagiatosi su posizioni di rendita, refrattario a investire per ammodernare l’agricoltura e a stabilire più equi rapporti di lavoro con i coloni. Ma al “risveglio” dei proprietari terrieri aveva grandemente contribuito il pungolo delle leghe di resistenza contadine, che organizzavano un numero crescente di mezzadri e reclamavano una revisione dei patti colonici.
Proprio dal punto di vista politico e sindacale gli anni che precedettero la venuta di Liviero furono segnati anche nell’Alta Valle del Tevere da un evento di enorme portata: per la prima volta il ceto contadino e operaio diventava protagonista della storia, dopo secoli di totale subalternità. Mezzadri, tipografi, ferrovieri, fornaciai, edili impararono con fatica a tutelare i propri diritti, a esigere un salario che permettesse almeno di nutrirsi adeguatamente, a richiedere migliori condizioni di lavoro, case che non fossero catapecchie e ricettacoli di tubercolosi, un’istruzione per i propri figli in un’epoca nella quale l’analfabetismo, per i poveri, era ancora la regola. E crebbe tra i lavoratori, con lo sviluppo del loro movimento, la convinzione di poter inviare in comune o in parlamento propri rappresentanti.
Liviero si inseriva inoltre in una città attraversata da significativi fermenti culturali. La pregevole attività editoriale di Lapi aveva già fatto conoscere ed apprezzare il nome di Città di Castello. Inoltre i baroni Franchetti avevano fatto della villa della Montesca sia uno stimolante punto di incontro intellettuale, sia la sede di scuole elementari ispirate al metodo montessoriano. L’ambiente era fecondato anche dall’apporto di uno stuolo di competenti studiosi, tra cui don Enrico Giovagnoli. Proprio questo giovane sacerdote animava da qualche anno la vita ecclesiale con il suo circolo Nova Juventus. Il suo approccio innovativo all’educazione spirituale e civile dei giovani allora incuteva timore nelle gerarchie ecclesiastiche, preoccupate per il diffondersi delle teorie moderniste; ma Giovagnoli anticipava esperienze in seguito accettate e fatte proprie dalla Chiesa cattolica. Né si limitò a questo il suo apporto alla vita pubblica tifernate, che ebbe in lui un colto intellettuale, imprenditore tipografico ed editore.