Cambiale di Luigi Pincardini.
Ricevuta di Marco Frati.

Altri scalpellini di fine ‘800

Il censimento del 1881 quantificò in 33 gli scalpellini tifernati. Si hanno sporadiche informazioni di alcuni di essi. Francesco Bioli (1875-1914) aveva il cantiere in piazza Tartarini; subì una contravvenzione perché i suoi garzoni vi avevano lasciato scaglie e polvericcio, “che colla caduta acqua pluviale aveva ridotto la strada un vero pantano” 15. Bioli ottenne diversi appalti per la lastricatura di strade urbane.
Uno scalpellino originario di Sansepolcro, Lorenzo Rossi era legato da un peculiare contratto di lavoro con la possidente Giuditta Antonelli. La donna provvedeva tutto quanto necessario al mestiere, “pietrame, attrezzi e bottega”; Rossi, che di suo non aveva che “pochi scalpelli”, veniva retribuito con “vitto e alloggio ragguagliato a lire venti mensili, e [con] un compenso di lire dodici al mese”.
Un fondo di pomerio Sant’Antonio ospitava l'”officina” di Matteo Magnani (1834-1880). Lungo tale via lavoravano altri “franchi scalpellini, cioè non dipendenti da alcun maestro”; essi, per la loro negligenza, provocarono un cospicuo “rinterro” del pomerio e toccò a Magnani ripristinare il piano stradale.
Qualche anno prima era stato Magnani a lavorare, con Giuseppe Fiorucci, all’edificazione del santuario di Canoscio. I due costruirono architravi, stipiti per le porte, capitelli, “gocciolatoi”, squadre per le cantonate del cornicione, cornici e probabilmente altri manufatti. La loro opera nel cantiere è documentata dal 1874 al 1876. In qualche occasione Magnani si trovò costretto a chiedere acconti a padre Luigi Pincardini “per potere fare il galantuomo apresso li [suoi] chreditori”. Scrisse in una circostanza: “Mi farebbe la charità se potesse darmi L. 20 in a conto di lavori sudetti della fabricha del Venerabil Ciesa di Chanosio perché ci avrei da pagare una chambialina alla chassa di risparmio oggi è di scadenza […]”.
Sul finire dell’Ottocento, con la città che viveva un’epoca di significativo rinnovamento urbanistico, si susseguirono diversi cantieri per il rifacimento delle strade interne. Per proteggere la pavimentazione il Comune stabilì che i barocci carichi di materiale da costruzione e “i carri di pietre destinate ai laboratori degli scarpellini nell’interno della città [dovessero], per quanto possibile, seguire la via interna di circonvallazione per condursi ai rispettivi cantieri”.
Le iniziative municipali comunque stentavano a dare occupazione continuativa ai tanti scalpellini. Nel 1892 la giunta chiese al prefetto di poter affidare a trattativa privata l’esecuzione del lastricato di via Fucci, proprio per andare incontro a questi artigiani, che avevano “urgente” bisogno di lavoro. Nel contempo il Comune doveva vigilare affinché si aggiudicassero le commesse di maggiore importanza gli scalpellini più capaci. Quando alcuni di essi chiesero la “concessione dei lastrici della città”, gli amministratori pubblici non esitarono a dichiarare che “i domandanti non [avevano] addimostrata la capacità per l’esecuzione di simili lavori” e che quindi non consideravano “prudente” rilasciare la concessione.

Gli estratti dal volume Artigianato e industria a Città di Castello tra ‘800 e ‘900 mancano delle note