Alberto Bigi. Una vita tra le emergenze

Alberto Bigi si trova a Città di Castello di passaggio. Ha 34 anni, è agronomo e lavora come consulente presso l’ufficio sub-regionale di Panama della FAO, l’agenzia delle Nazioni Unite preposta a garantire la sicurezza alimentare nel mondo attraverso il sostegno politico e tecnico ai Paesi membri. Cosa significhi sicurezza alimentare ce lo spiega lui stesso: “Tutte le persone, in ogni momento, dovrebbero avere accesso ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti che garantiscano le loro necessità e preferenze alimentari per condurre una vita attiva e sana”.
Attualmente Alberto opera presso una unità che fornisce appoggio tecnico ai paesi di Centro America e Caraibi nella prevenzione e riduzione del rischio di disastri e nelle operazioni di emergenza alimentare. Un lavoro affascinante: “Sono in un team con persone di varie nazionalità dislocate in vari uffici della FAO nel mondo. Devo parlare e scrivere in inglese (per i paesi anglofoni dei Caraibi e per le comunicazioni ufficiali), spagnolo (per parlare con Centro e Sud America), francese (per parlare con Haiti) e italiano (per addolcire i colleghi burocrati della sede di Roma)”. Un lavoro variegato, non sempre davanti a un computer per redigere documenti tecnici e amministrativi: “Infatti capita spesso di fare riunioni via Skype, in videoconferenza o frontalmente con gli altri colleghi della FAO e con i rappresentanti di varie istituzioni. E poi ci sono le missioni di monitoraggio dei progetti in campo. Come amante della campagna, dell’agricoltura e della cultura contadina – sottolinea Alberto – chiaramente ciò che mi piace di più sono proprio le visite di monitoraggio dei progetti, quando finalmente ci si confronta con la realtà del terreno e con la gente che del nostro lavoro dovrebbe beneficiare”.
Alberto ama il suo lavoro: “Certo che mi piace: per l’orgoglio e l’entusiasmo di fare qualcosa per la società, per la possibilità di interagire quotidianamente anche su temi importanti con persone di tutto il mondo, per l’opportunità di conoscere luoghi nuovi e affascinanti”. Tuttavia, ammette, talvolta può essere frustrante: “In una organizzazione così grande, non si è che uno dei piccoli ingranaggi della macchina; non è sempre facile farla girare in maniera più veloce ed efficiente”. Frustrazioni spesso accresciute da ingerenze politiche o da scelte governative sbagliate. E qui Alberto tocca un tasto noto e delicato: “Credo che uno degli aspetti più importanti per assicurare lo sviluppo dell’agricoltura e la sicurezza alimentare nei paesi più poveri sia quello di promuovere la ridistribuzione delle terra e le riforme agrarie. Però, visto che la maggior parte delle lobby dei Paesi non ha interesse che se ne parli, la FAO non spinge e questo resta un tema piuttosto marginale”.
Come è arrivato fin qui, Alberto? Già durante l’adolescenza sognava di viaggiare: “Quando ero piccolo vedevo le foto di mio babbo nel deserto del Sahara e sognavo i viaggi che avrei fatto quando sarei stato grande”. Poi, però, al fascino dell’avventura e al desiderio di conoscere il mondo si sono aggiunte motivazioni più forti. Soprattutto, dice Alberto, “la curiosità esistenziale e scientifica di capire perché in alcuni Paesi del mondo si mangiava bene, si poteva andare a scuola e avere accesso alle cure, oltre che andare in vacanza, mentre in altre aree immense del mondo si moriva di fame”.
È iniziato così il viaggio di Alberto nel mondo del volontariato, con la fondazione de “La Boteguita” e del suo negozio di vendita di prodotti “equo solidali”, e una prima visita in Burkina Faso per conoscere l’Africa e lanciare un poderoso progetto, proprio “equo solidale”, di esportazione di tovaglie: “Quell’esperienza mi ha fornito un primo assaggio di Africa e mi ha fatto conoscere quella che è la povertà più estrema, ma anche il gusto per la scoperta, la semplicità e la condivisione. Sono tornato con tanto entusiasmo, che devo essere riuscito a trasmettere a chi mi stava attorno. Poco dopo, infatti, mio babbo Giovanni, Corrado Valori e Giancarlo Lorenzini sono tornati a visitare la missione e, per sostenerla, hanno fondato l’associazione Laafi Bala”
Quindi sei mesi di “Erasmus” in Danimarca, un breve stage in Kenya e il ritorno in Burkina Faso, anche per scrivere la tesi di laurea: “Mi sembra di avere vissuto dentro ad un film. Per cinque mesi sono stato a stretto contatto con i contadini e le famiglie del Burkina Faso, viaggiando per tutto il Paese in ambienti veramente estremi con autobus e mezzi di fortuna, dormendo come ospite nelle famiglie e mangiando ciò che capitava. Ho così imparato a vivere con naturalezza ed estrema curiosità le diversità culturali e a sapermi adattare un po’ a tutto”.
Dopo la laurea, uno stage in Argentina e il primo lavoro in Niger, con l’ONG italiana COSPE. Un salto impressionante: “Dai banchi dell’Università alla responsabilità di gestire un progetto di un milione di euro in uno dei Paesi più poveri e climaticamente difficili del mondo. Il primo anno guadagnavo 500 euro al mese e facevo tutto girando con un motorino per Niamey tra incontri ministeriali e pratiche burocratiche. Avevo sulle spalle la gestione finanziaria e il coordinamento operativo. Il trovarmi all’improvviso da solo e con tante responsabilità in un mondo così diverso e difficile mi ha dato l’opportunità di imparare rapidamente un lavoro nella sua interezza”.
Quei due anni in Niger hanno segnato Alberto: “Ho conosciuto la malaria e tante persone splendide. Il ricordo più forte è il fascino per l’eleganza e l’orgoglio della cultura Tuareg e Peulh di donne e uomini che sono riusciti ad abitare nell’ambiente più inospitale del mondo, il deserto. In Africa, vivendo a stretto contatto con i colleghi e gli amici locali ho imparato l’importanza delle radici. Nessuno come un africano soffre tanto la lontananza dal proprio villaggio natale, anche se questo può sembrare povero e inospitale. Il villaggio è in realtà la famiglia e gli amici, che nessun ambiente più gradevole può mai sostituire”.
Dopo il Niger, ecco Alberto in Tajikistan, come capo progetto per un’altra ONG italiana, la CESVI. Il Tajikistan è un piccolo Paese poverissimo dell’Asia centrale, con un territorio costituito per il 97% da montagne rocciose e brulle. Un salto impressionante, da un mondo a un altro: “Dal deserto del Niger ai villaggi di montagna innevata del Tajikistan; dal caldo africano asfissiante ai lunghi inverni centro-asiatici, spesso senza luce né gas per il riscaldamento. Con una difficoltà insormontabile: la gente parla tajiko e come seconda lingua il russo…” Inoltre, dopo poco tempo, Alberto si ritrovò ad essere il rappresentante della ONG nel Paese: “La ONG stava per chiudere per mancanza di fondi, ma mi rimboccai le maniche, anche perché oltre al lavoro non c’era molto altro da fare, e in breve tempo ricevemmo nuovi progetti e fondi. Ho passato in Tajikistan due anni e mezzo: alla fine ero a capo di una ONG con 4 uffici nel Paese, 6 capi progetto espatriati, circa 60 collaboratori locali e un budget totale di circa 6 milioni di euro”.
La successiva avventura di Alberto è, per la stessa ONG, in Libano, per chiudere un progetto di sostegno alle popolazioni colpite dalla guerra tra Israele e Libano del 2006: “Visitando per lavoro i vari campi profughi palestinesi ho toccato con mano il dramma del conflitto tra Israele e Palestina e dei soprusi che i palestinesi sono costretti a ricevere ogni giorno sotto gli occhi inermi della comunità internazionale. Ho visto per la prima volta i danni che provoca un guerra sia a livello di infrastrutture che di vite umane, ma anche delle ferite aperte che lascia nel cuore e negli occhi della gente e dei bambini che l’hanno vissuta”.
Dopo il Libano, la CESVI invia Alberto ad Haiti per l’emergenza terremoto: “È incredibile come un minuto di terremoto può cambiare il volto e la vita di milioni di persone. Quel 12 gennaio 2010 la terra ha tremato per appena 1 minuto, ma dopo quella manciata di secondi quel paese non sarebbe mai stato lo stesso: 250.000 morti e quasi 2 milioni di persone senza casa. Arrivare ad Haiti dopo il terremoto è stato allucinante. Intere città totalmente rase al suolo. Non sembrava reale. L’instabilità del governo haitiano e la disorganizzazione della cooperazione internazionale hanno fatto sì che i tanti fondi stanziati per la risposta all’emergenza o sono stati spesi in modo scoordinato tra loro, o non sono mai stati spesi o sono scomparsi. L’intervento di risposta alla emergenza del terremoto in Haiti passerà alla storia come uno dei più grandi fallimenti della cooperazione internazionale”.
E ad Haiti Alberto se l’è vista brutta, preso nel mezzo di violente manifestazioni politiche: “Lavoravo nel mio ufficio quando una moltitudine di persone sono scese in strada a protestare. Tutte le vie sono state bloccate da fuochi, pietre ed alberi tagliati. In pochi minuti la città è stata messa a ferro e fuoco. Sotto la mia finestra vedevo una folla inferocita armata di fucili, bastoni e pietre che cercava di distruggere tutto. I palazzi intorno al mio furono dati alle fiamme e passai una notte intera chiuso in casa da solo, con una sola porta che divideva me e la folla rivoltosa, mentre il fumo nero e denso entrava dalla finestra. Fu la volta in vita mia che ebbi più paura. Venni poi a sapere che non entrarono nel mio edificio perché si opposero con la forza le persone del quartiere che mi conoscevano. Il giorno dopo all’alba, quando gli scontri si placarono, gli stessi amici del quartiere, mi fecero scappare a piedi dalla città, scortandomi fino alla casa di altri amici che vivevano in campagna. Quelle due ore di cammino all’alba sotto la pioggia, tra le barricate e i pneumatici in fiamme di una città fantasma, evitando tafferugli e sparatorie, me lo ricorderò per tutta la vita. In questa occasione imparai che per avere maggiore sicurezza funziona più un sorriso che la dimostrazione della forza”.
Uscito indenne da quel terribile frangente, Alberto ha trovato il coraggio di restare nel martoriato Paese caraibico. Dopo quasi un anno, proprio ad Haiti, ha iniziato a lavorare per la FAO.