Il campo di internamento di Renicci.
Disegno del campo di internamento.

Gli internati slavi di Renicci: fuga e solidarietà popolare

A Motina, in territorio di Anghiari a ridosso dei Monti Rognosi, si situava l’importante campo di internamento fascista n. 97, detto di Renicci. Nell’estate del 1943 imprigionava per la quasi totalità civili, ritenuti politicamente pericolosi, deportati dai territori della Jugoslavia occupati dall’esercito italiano. Dopo l’annuncio dell’armistizio, diversi soldati italiani di stanza nel campo cominciarono a disertare, alla spicciolata. Il servizio di guardia si era dunque di molto allentato quando, il 14 settembre, vi fecero una sosta dei mezzi tedeschi. Temendo di cadere nelle loro mani, gli internati abbatterono i cancelli del campo e lo evacuarono in massa. Fu un esodo, in ogni direzione. Si parlò di circa 5.000 fuggiaschi. I capresani videro apparire lungo la strada di Manzi “una lunga, interminabile colonna di slavi”; poi, al bivio di ponte Singerna, uno sloveno che parlava un perfetto italiano e “che sembrava esercitare una funzione di orientamento e di guida”, chiese cordialmente alla gente del posto cibo ed acqua. Gran parte degli evasi andarono in direzione dell’Adriatico, chi per Pieve Santo Stefano, chi per il passo di Viamaggio, chi per Bocca Trabaria, con l’ardito intento di tornare in patria.

La solidarietà della popolazione rurale fu straordinaria. Per la parrocchia di Colcellalto (Sestino) passarono “lunghe file di croati e slavi” che da Renicci tentavano di raggiungere Ancona; annotò don Gerico Babini: “[…] sono letteralmente affamati e nudi; vengono a chiedere educatamente un pezzo di pane, ringraziano e fanno il segno della S. Croce prima di mangiarlo”. Anche don Augusto Giombini, parroco di Santa Maria in Graticcioli (Sant’Angelo in Vado), si adoperò grandemente a favore dei fuggiaschi di Renicci: “Moltissimi dopo averli fatti ristabilire, ho fornito di carte, danari, viveri per proseguire il viaggio verso il fronte. Altri perché sfiniti ho provveduto di un letto, di un capanno, di vitto per affrontare l’inverno. Alcuni di questi infelici sono morti con le mie scarpe e i miei panni”.

Inoltre furono numerosi gli ex prigionieri dei Paesi alleati che percorsero i boschi di quelle alture. Gran parte della popolazione rurale di tale area appenninica visse dunque un’esperienza inconsueta e grandiosa di confronto con una realtà umana sconosciuta e di solidarietà verso uomini che sapevano provenire da Stati “nemici”. […]

Anche nella parrocchia montana di Morena, a nord-est di Pietralunga, quel settembre fu segnato dal passaggio di centinaia di fuggiaschi. Don Marino Ceccarelli scrisse nel suo diario: “Ogni giorno centinaia di prigionieri (nei primi giorni soltanto slavi) passavano per la casa parrocchiale, portando nel viso i segni di grandi sofferenze e facevano pietà a sentirli raccontare della prigionia, delle loro famiglie disperse, però erano lieti di trovare tanta buona gente in Italia, specie i sacerdoti”. Un montenegrino che riuscì ad attraversare gli Appennini avrebbe ricordato, con gratitudine: “[…] fin da quel primo contadino che ci aprì la porta di casa sua e fino all’ultima casa in cui chiedemmo un qualsiasi aiuto, non avemmo un solo caso in cui quella gente non ci desse, se non altro, un filone di pane, una forma di formaggio e un fiasco di vino”.

Gli evasi da Renicci che, per evitare la cattura da parte dei tedeschi, ritennero più prudente nascondersi nelle vicinanze, trovarono l’ambiente più favorevole sui monti e nei boschi del Capresano. Anche con loro la gente del posto condivise il poco che aveva. Lo testimonia il diario del parroco di Sigliano: “[I fuggiaschi] si annidavano nei boschi vicini, ma non tardarono a venire, spinti dalla fame nelle nostre case, e tutti si fece a gara nel prodigare a loro aiuti ed assistenza. Devo dire, in verità, che si comportarono assai bene, si contentarono di quello che si poteva dare loro e si mostravano educati e rispettosi. Feci amicizia con molti e tenni la mia tavola apparecchiata per loro ogni volta che venivano”. Un’esperienza simile visse, qualche chilometro più a monte, Avre Nardi: “Noi accogliemmo due slavi, di Lubiana. Gente brava, grandi lavoratori. Di notte dormivano in un capanno nella macchia; di giorno stavano con noi e davano una mano. Uno era falegname e raccomodava le sveglie; l’altro faceva il barbiere”.

Lo spontaneo moto di solidarietà trovò immediato sostegno nel Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista di Arezzo, che indicò come attività prioritaria l’assistenza ai prigionieri alleati e slavi evasi dei campi di Renicci e Laterina. Il comitato affidò all’anarchico anghiarese Beppone Livi la responsabilità di rifornire di vettovaglie i circa 300 slavi rifugiatisi tra Ponte alla Piera, Caprese Michelangelo e l’Alpe di Catenaia. Fermato il 30 ottobre ad Arezzo, Livi rispose alle contestazioni delle autorità fasciste: “Io ho messo in pratica le opere della misericordia: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, ecc. ecc.”. E quando gli rinfacciarono che gli slavi erano nemici della Patria, dichiarò: “Io quando mi trovo di fronte ad un affamato che mi chiede da mangiare, non gli domando mai a quale nazione appartiene, che cosa fa, chi è e come la pensa”. 

Prese così forma una rete clandestina assistenziale che nella valle fece perno soprattutto su antifascisti di Anghiari e di Sansepolcro. Ad Anghiari fu promossa una sottoscrizione per distribuire del denaro agli slavi che volevano tentare il ritorno in patria e per dare vitto e alloggio a quanti decidevano di restare nella zona. Il comitato clandestino di Sansepolcro, quando si formò a novembre, individuò proprio negli aiuti agli ex internati la sua attività prioritaria in quel momento.

I tedeschi, consapevoli del rischio di non avere il pieno controllo di un’area appenninica strategicamente importante per i loro piani difensivi, tentarono in un primo momento, anche con volantini, di far sapere agli evasi che chi si fosse riconsegnato non avrebbe subito punizioni e sarebbe stato ricondotto nel suo Paese. Ma solo i più scettici sulle reali possibilità di fuga tornarono sui loro passi. Poi, all’inizio di novembre, un rastrellamento nazi-fascista su vasta scala investì i monti della Valtiberina toscana ai due lati del Tevere, tra Caprese Michelangelo e il passo di Viamaggio. L’operazione si proponeva di ripulire quell’impervio territorio dalla variegata comunità di fuggiaschi che vi avevano trovato rifugio: oltre agli internati slavi, anche renitenti e disertori italiani ed ex-prigionieri anglo-americani. Il rastrellamento produsse risultati molto modesti, anche perché la popolazione continuò a mostrarsi solidale con gli uomini alla macchia. Avvenne dunque che – nelle parole di Giovannino Fiori – “le centinaia di ex prigionieri rimasero padroni dei boschi”.

 

Per il testo integrale, con le note e i riferimenti iconografici, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.