Stampati prodotti dalla Tipografia Donati.

Una famiglia artigiana

La restaurazione del governo pontificio, nella primavera del 1814, non dovette scuotere più di tanto Francesco Donati. I poveri artigiani imparavano presto l’arte di sopravvivere al rivolgimenti politici e al mutare delle amministrazioni.
Non si hanno testimonianze su come andassero con certezza gli affari a Francesco Donati e al figlio Biagio, che pian piano lo affiancò stabilmente e con profitto. Possiamo farcene un’idea esaminando la gran mole di stampati prodotti nella loro tipografia. Per quanto Città di Castello offrisse modeste prospettive di sviluppo economico, sociale e culturale, i Donati vi avevano ricavato un proprio spazio e non versavano più in precarie condizioni finanziarie. Lo proverebbe l’investimento osato da Francesco poco dopo la Restaurazione e già evidenziato dai primi storici delle tipografie tifernati: “Datosi a tutt’uno per migliorare e accrescere di continuo il suo materiale, si deve alla solerzia di lui, se finalmente anche Città di Castello nel 1817 può ammirare entro le sue mura i bei caratteri del sommo Bodoni, [il quale] lasciò incise, prima che l’Arte tipografica dovesse rimpiangerlo, 142 serie di caratteri, tra esotici, greci e latini”. Quei bodoniani gli servirono, l’anno successivo, per realizzare al meglio la cospicua opera Synodus Dioecesana per il vescovo Francesco Antonio Mondelli. I limiti obiettivi della realtà locale, però, non potevano certo favorire la stampa di libri così corposi e Donati avrebbe dovuto attendere a lungo prima che, con un’altro vescovo, s’avventurasse in imprese tanto impegnative.
La famiglia Donati conduceva dunque una vita parca ma dignitosa, certo al di sopra del mero livello di sopravvivenza dei tanti braccianti e degli operai delle botteghe artigianali. La moglie di Francesco, la casalinga Celeste, beneficiava della tenuissima rendita di una dote di “scudi sessantaquattro, baiocchi cinquantuno, e tre quattrini” assegnatale ad Assisi. Nel 1828 i due coniugi la ritirarono, la integrarono fino alla somma di 100 scudi e prestarono il tutto allo stradino Giulio Martini. In assenza di istituti di credito, allora avvenivano frequentemente tra privati prestiti del genere – detti “cambi”. Per quel prestito, i Donati ricavavano un frutto annuo del 10%. I dieci scudi di rendita significavano, per il livello dei salari di allora, la paga di circa 40 giornate lavorative di un mastro muratore. Quando Martini restituì loro la somma, la prestarono di nuovo, prima a un tal Menchi, poi a GioBatta Laurenzi di Mucignano. Questi risulta nel 1836 ancora contraente con Biagio Donati di un prestito di cento scudi al tasso di interesse dell’8%.
Il fatto che i Donati solessero “impiegare li loro denari in simili cambi” – così dichiarò il notaio Prosperini – lascerebbe supporre un tenore di vita ben superiore a quanto detto. In realtà era abbastanza modesto da permettere alla loro figlia Apollonia di concorrere nel 1832 all’estrazione a sorte delle doti scudi elargite dall’Opera Pia Ranieri per “zitelle povere ed oneste dagli anni 16 ai 30 compiuti”. Apollonia fu fortunata: uscì proprio il suo nome e poté così ritirare i 50 scudi della dote dopo il matrimonio con il giovane sarto Luigi Grifani.

L’estratto è un breve sintesi del testo in A. Tacchini, La Grifani-Donati 1799-1999. Duecento anni di una tipografia (1999).