Resistenza sull’Appennino tosco-romagnolo

Nel territorio montuoso tra Badia Tedalda e il Monte Fumaiolo trovarono rifugio sia alcuni slavi evasi da Renicci – come Giovanni Paolic e Isidoro Turcic –, sia renitenti e disertori forestieri. Tra di essi, personaggi destinati a recitare un ruolo importante nella storia del movimento resistenziale. I fratelli senesi Frè Luigi e Sildo Bimbi – l’uno ufficiale dell’aeronautica, l’altro allievo di accademia dello stesso corpo – decisero di non arruolarsi per la Repubblica Sociale Italiana e si nascosero presso i parenti di Rofelle di Badia Tedalda, condividendo la vita di quella comunità rurale. Maturarono la scelta di combattere contro il nazi-fascismo frequentando alla macchia altri giovani del luogo, tra cui il cugino carabiniere Fosco Montini, e gli slavi, che avevano alle spalle esperienza bellica e si mostravano fortemente motivati. Tanti altri coetanei, renitenti e militari sbandati, restavano prudentemente nascosti nella zona e costituivano un potenziale bacino di reclute per la lotta armata. Verso il Natale del 1943 prese così forma una prima aggregazione partigiana, con principale punto di riferimento Balze di Verghereto e contatti con gli altri gruppi sull’Alpe della Luna e nei territori limitrofi.

Nel marzo 1944 furono le stesse fonti fasciste a diffondere la convinzione che il tratto appenninico tra Toscana, Marche e Romagna fosse in qualche modo in balia dei partigiani. Il 26 di quel mese Enrico Cavallo, ispettore di pubblica sicurezza della IV zona, comprendente le province di Pesaro e Forlì, definì “gravissima” la situazione politica, per la “crescente criminalità dei ribelli, che numerosissimi, circa quattromila, si annidano sulle montagne, ai confini con Perugia, Ancona e Forlì e scendono sempre più audaci al piano”. Chiese pertanto un immediato intervento armato: “La situazione impone di non procrastinare più oltre azioni di polizia in grande stile, quasi azioni belliche, con armi idonee, con uomini attrezzati, numerosi e di fede, comandati, inquadrati e guidati da competenti”.

La missiva da un lato rivelava che le autorità fasciste sopravvalutavano numericamente il movimento partigiano, dall’altro implicitamente ammetteva l’inefficacia dei precedenti interventi repressivi, vuoi per il loro limitato raggio d’azione, vuoi per l’inadeguatezza delle forze impiegate. Nella seconda metà di gennaio 1944 i partigiani avevano attaccato due volte la caserma dei carabinieri di San Piero in Bagno, disarmando la guarnigione, asportando armi e materiale di casermaggio e uccidendo il commissario prefettizio di quel Comune e un appuntato dell’Arma che aveva opposto resistenza.

Il nucleo partigiano che si stava formando nella zona di Rofelle di Badia Tedalda e di Gattara di Casteldelci attorno ai fratelli Frè Luigi e Sildo Bimbi si aggregò alla fine di marzo 1944 ai partigiani romagnoli. Fecero parte della banda, tra gli altri, Fosco, Loreto, Silvio e Pietro Montini, Angelo Datti, Goretto Gori, Domenico e Onorio Vergni, Fortunato Vellati e Abramo Venturi, tutti di Badia Tedalda, e Giuseppe Angeli (di Alfonso), Giuseppe Angeli (di Amedeo), Roberto Betti e Giovanni Romagnoli, di Gattara e Casteldelci. Nella zona tra Badia Tedalda e Balze di Verghereto operò pure la banda detta “delle Serriole”, che si sarebbe aggregata all’8a Garibaldi il 1° giugno. Tra gli altri, vi militarono Marsilio Milli, di Montebotolino, e Santino Vergni, di Fresciano (loc. Serriola). Parroco di Fresciano era don Gino Lazzerini, che si definì “testimone-collaboratore e partigiano combattente nella zona di Fresciano (Badia Tedalda) durante il movimento di liberazione”. Di altri due partigiani del posto, Abramo Venturi e Domenico Vergni, non è chiaro se inizialmente si aggregarono al gruppo dei Bimbi o a quello delle “Serriole”.

Alla fine di marzo le tre formazioni romagnole costituirono il Gruppo Brigate Romagna. Di lì a poco sarebbe diventato l’8ª Brigata Garibaldi “Romagna”. Un numero cospicuo di questi partigiani – circa 700 – si trasferì all’inizio di aprile verso Balze di Verghereto e il Poggio dei Tre Vescovi. Alcuni loro reparti, con i fratelli Bimbi, il 3 aprile effettuarono una riuscita azione proprio tra Badia Tedalda e Rofelle, catturando e disarmando a San Patrignano – come ammise il Notiziario nazionale della GNR – “18 soldati e un sottufficiale del genio costruttori di stanza a Badia Tedalda”. La stessa fonte il 16 aprile dette notizia dell’afflusso sul Monte Fumaiolo, tra i comuni di Verghereto, Casteldelci e Badia Tedalda, di una grossa formazione partigiana valutata in “varie centinaia di elementi”: “Le frazioni Pratieghi, Caprile, Presciallo e Rotello [si legga Fresciano e Rofelle] del comune di Badia Tedalda sono state occupate da una forte banda di ribelli, proveniente da Balze di Verghereto. I banditi si sono impadroniti dei depositi dell’ammasso cereali: parte del grano lo hanno distribuito alla popolazione e parte lo hanno portato seco”.

Una così cospicua presenza partigiana a ridosso della Linea Gotica non poteva non destare allarme. Infatti a partire dal 5 aprile la Panzer Division “Hermann Goering” e truppe dell’esercito fascista repubblicano effettuarono tra l’alta valle del Savio e l’area del Monte Fumaiolo un vasto rastrellamento, che riuscì a scompaginare il Gruppo Brigate Romagna. Scorse molto sangue. Fu in quei giorni che avvenne la strage di Fragheto, frazione di Casteldelci, dove i nazi-fascisti massacrarono 30 persone, tra cui 15 donne e 7 bambini. Furono inoltre fucilati 13 uomini, tra renitenti e partigiani catturati. Morirono anche dei fascisti. Nella tensione del momento, sentendosi braccati e rimasti con poche armi e senza viveri, i partigiani uccisero nel cimitero di Casa Nova dell’Alpe (Bagno di Romagna) otto fascisti catturati a Sant’Agata Feltria e un uomo di Rofelle (Aldo Gavelli), considerato una spia.

Per quanto costretti alla fuga e messi in seria difficoltà dal rastrellamento, i reparti partigiani tornarono in breve tempo a scorrazzare in quel vasto territorio montano. Dai Notiziari della GNR si evince che disturbavano il traffico lungo le arterie della zona, prelevavano dalle fattorie generi alimentari ed esercitavano una dura pressione sui fascisti: a Verghereto venne ucciso un calzolaio che faceva opera di propaganda fra i giovani per indurli a presentarsi alle armi. Il Notiziario dell’8 maggio segnalava “bande in via di formazione, a Sestino, Badia Tedalda e presso San Sepolcro”. Quello del 30 maggio presentava uno scenario inquietante per il regime: “A San Sepolcro, e precisamente nella zona di Aboca, Viamaggio e Casa del Vento esiste una banda di circa 150 uomini, per la maggior parte stranieri, i quali hanno sotto il loro controllo piccole frazioni montane e hanno provveduto a minare anche i sentieri obbligati di passaggio. Viene segnalato anche un forte nucleo nell’Alpe della Luna (San Sepolcro), formato da elementi stranieri. Altra banda si aggira nel comune di Badia Tedalda fra Pratieghi, Fresciano e Caprile: i componenti sono in maggior parte romagnoli”. La stessa inesattezza di alcune informazioni diffuse dai fascisti provava come avessero perso il pieno controllo di un territorio di così rilevante interesse strategico. La sede della direzione generale della Linea Gotica per il tratto Montecchio-Sestino era a Macerata Feltria e a protezione degli operai della “Todt” impiegati nei lavori di fortificazione era stato dislocato il 1° Battaglione Genio Costruttori della GNR, con la 1a e 2a compagnia schierate tra Sestino e Sansepolcro. Ma gran parte dei militi fascisti si rivelarono vulnerabili sia agli attacchi partigiani, sia alla propaganda antifascista.

Il disturbo delle comunicazioni da parte dei “ribelli” sulle arterie di quella zona montana andò di pari passo con una sequenza di requisizioni che accrebbe il senso di insicurezza e di impotenza del regime e dei suoi sostenitori. I Notiziari della GNR ne documentano almeno 13 dal 17 aprile al 30 maggio tra Sansepolcro, Pieve Santo Stefano, Badia Tedalda e Sestino. Ma c’è da ritenere – come per gli altri territori posti nel raggio d’azione dei partigiani – che la milizia fascista rendesse noti solo una parte, per quanto cospicua, di tali episodi. Le azioni delle bande colpirono la fattoria Lombezzi, la villa della SAI Genovese, un ammasso comunale di grano a Sestino (ne furono asportati 60 quintali sul dorso di muli), l’azienda agricola Caproni a Montelabreve (con il prelevamento di 300 agnelli, 4 bovini e diversi quintali di grano) e uno stabile a Orecchio di Sestino (lenzuola, coperte e vestiario). Inoltre i partigiani si impossessarono al Passo della Spugna di un furgone con 8 quintali di zucchero, costrinsero il parroco di Montelabreve a dare generi alimentari e denaro e requisirono degli agnelli alla fattoria dei Cavazza Collacchioni. In quest’ultimo caso non si può escludere che i proprietari abbiano denunciato come furto una loro spontanea donazione, dal momento che era notoria la loro simpatia per gli uomini alla macchia e proprio di questo avevano dovuto rendere conto alle autorità di polizia. Altre azioni, di valore per lo più simbolico, concorsero a far apparire i partigiani sempre più sfacciati e nel contempo sfuggenti. A Monterano di Badia Tedalda imposero a 30 operai di un’azienda boschiva della ditta di sospendere il lavoro; nella rivendita di generi di monopolio di Aboca si impossessarono di una modicissima quantità di sale da cucina e vollero ugualmente lasciare questa ricevuta: “Comando brigata partigiani (G.). Abbiamo con forza avuto dallo spaccio n. 10 kg. 2 di sale a noi necessario. Il capo brigata, firmato Kel Tin”. Risulta difficile stabilire la paternità di queste incursioni: nella zona gravitavano allora, oltre alla “Francini”, i reparti della 5a Brigata Garibaldi Pesaro dislocati più a settentrione e partigiani romagnoli della 8a Brigata Garibaldi.

 

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.