Appunti del partigiano Fabio Cangi su un'illustrazione del volume.

Resistenza nei Balcani

Le vicende dei partigiani altotiberini in Jugoslavia e in Albania necessitano di uno studio approfondito. Con questa ricerca contribuiamo con un primo censimento ampio – ma sicuramente incompleto – di quanti scelsero di combattere il nazi-fascismo in terra straniera dopo l’armistizio. Le schede, suddivise comune per comune, presentano i dati raccolti sulla base della frammentata documentazione finora consultata. Particolarmente utili si sono rivelati i Ruolini matricolari comunali dei militari, che però contengono informazioni estremamente sintetiche rispetto ai Ruoli conservati dalle autorità militari.

Questo aspetto della Resistenza non ha ancora avuto, almeno a livello locale, il giusto riconoscimento. Eppure si tratta di una quantità consistente di militari che coraggiosamente, invece di arrendersi ai tedeschi, o di continuare il conflitto con l’ormai ex alleato, decisero di schierarsi a fianco di quei partigiani che fino ad allora erano stati loro nemici. Una scelta di campo difficile, che significò restare a combattere sulle montagne dei Balcani fino alla primavera del 1945. Tornarono assai provati da quella guerra, disputata in ardue condizioni ambientali e contro un agguerrito fronte avversario di tedeschi e di milizie locali divise per appartenenze etniche, religiose e politiche.

I partigiani altotiberini in Jugoslavia fecero per lo più parte della Divisione “Garibaldi”. Sorse all’inizio di dicembre del 1943, quando vi si accorparono i numerosi reparti alla macchia delle divisioni “Venezia” e “Taurinense”. La “Venezia” era costituita dall’83° e l’84° reggimento fanteria e dal 19° reggimento artiglieria. Componevano la “Taurinense” due reggimenti di alpini e uno di artiglieria. Erano in Jugoslavia dall’aprile 1941, quando tedeschi e italiani la occuparono.

La “Garibaldi” si strutturò in quattro brigate, alle dipendenze dell’EPLJ, l’esercito partigiano di liberazione jugoslavo, ed operò prevalentemente in Montenegro e in Serbia.

In Jugoslavia si formarono anche altre aggregazioni partigiane italiane. Tra di esse i battaglioni “Garibaldi” (diverso dall’omonima divisione) e “Matteotti”, attivi in Dalmazia, Bosnia e Montenegro e poi riuniti nella Brigata “Italia” dell’EPLJ.

Oltre ai partigiani combattenti, contribuirono alla Resistenza jugoslava i numerosi militari italiani confluiti nei cosiddetti “battaglioni lavoratori”. Generalmente disarmati e in situazioni di grande rischio e di gravi disagi, furono addetti ai lavori sulle infrastrutture di interesse civile e militare, dalle strade agli ospedali, nei territori occupati dall’EPLJ.

Prendendo in considerazione i dati di 12 comuni su 15 (mancano quelli di Monterchi, Monte Santa Maria Tiberina e Sestino), combatterono nella Resistenza jugoslava 92 partigiani altotiberini, di cui 54 residenti nella Valtiberina toscana e 38 nella parte umbra della valle. I gruppi più consistenti erano di Città di Castello (28), Sansepolcro (18), Anghiari (14) e Pieve Santo Stefano (10). Furono 15 i caduti.

Altri 29 partigiani altotiberini militarono nella Resistenza albanese o greca. Quelli in Albania fecero parte del Battaglione, poi Brigata, “Gramsci” che si unì all’Esercito Albanese di Liberazione Nazionale.

Considerando anche un altro militare che combatté nella Resistenza francese, si possono quantificare – finora – in 122 i partigiani altotiberini all’estero.

Alcune testimonianze tramandano vividi ricordi della guerra partigiana nei Balcani. Fabio Cangi, classe 1922, contadino di Pieve Santo Stefano, era inquadrato nella divisione di fanteria da montagna “Venezia”. Quando giunse la notizia dell’armistizio, avvenne un fatto straordinario: una consultazione di massa all’interno della divisione: “Non si sapeva cosa fare. Poi i nostri generali fecero un raduno e interpellarono da ufficiale a ufficiale, fino al soldato… Non ci hanno forzato… La maggioranza decise di andare con Tito”. Il caporal maggiore Tullio Tofani, muratore di Viaio (Anghiari), era attendente di un tenente e fu testimone di quanto avvenne: “Il generale della Divisione, Oxilia, chiamò a raccolta gli ufficiali e disse: ‘Io non mi arrendo; se venite con me, vi assicuro che si tornerà in Italia armati’”.

Combattendo spalla a spalla con i partigiani di Tito, pian piano si stemperarono anche i rapporti tra slavi e italiani. Afferma Cangi: “Ci hanno accolto non c’è male. La Divisione Venezia non aveva fatto gran che di strage, contro la popolazione, o contro i loro partigiani. E poi, una volta che ci hanno conosciuti, hanno cominciato a fare distinzione tra soldati italiani e camicie nere. Insomma, ci sentivamo rispettati, ci consideravano come loro”. Ad accrescere l’odio contro gli italiani c’erano state infatti le efferatezze commesse dai fascisti nella repressione del movimento di liberazione jugoslavo: “I fascisti, le camicie nere, erano peggio dei tedeschi. Di fatti, quando i partigiani slavi li catturavano, li fucilavano subito; qualche volta hanno anche dato i loro corpi in pasto ai maiali”.

L’EPLJ si rivelò ai partigiani italiani un organismo solido, motivatissimo, estremamente rigoroso, con parecchie donne combattenti. Al suo fianco condussero una lotta di guerriglia fatta di continui spostamenti in condizioni ambientali e meteorologiche avverse. Durante l’inverno del 1943-1944, il nemico peggiore divennero le intemperie e la mancanza di cibo. Ricorda Cangi: “È stato più duro l’inverno della guerra. L’inverno e la fame… So’ stato anche sei-sette giorni senza mangiare, a mettere in bocca giusto un po’ di neve”. E Tofani: “Quell’inverno avemmo anche 35 gradi sotto zero. Mi si congelarono i diti. Ho passato sette notti in una pineta, sempre all’aperto. La neve era alta e ghiacciata. Per mangiare qualcosa ci siamo ridotti a rosicchiare le punte di abete. Anche la terribile tormenta ammazzava; cavava il respiro. E per ripararci non avevamo che semplici tende”. In quelle situazioni estreme bisognava pure stare attenti a non ammalarsi e a non subire ferite: “Per curare e assistere i feriti c’era poco o niente. E in quel tipo di guerra i prigionieri feriti o malati erano un impiccio, sia per i partigiani che per i tedeschi…”.

Chi era abituato a stenti e ristrettezze riusciva meglio a sopravvivere. Come Tofani: “Io, che venivo dalla campagna, ero avvantaggiato. Se trovavo una lumaca, una ranocchia, un po’ ortica, le mangiavo. Qualche volta si tirava una bomba a mano nel fiume per ammazzare il pesce e farlo venire a galla. Per un periodo ho fatto il cuoco: cucinavo quello che portavano con le requisizioni. Loro non mangiavano né le teste di animale, né il fegato, né le budella: io invece li pulivo e li mangiavo”.

Quella guerra lasciò il segno su Fabio Cangi. Prima fu seriamente ferito in uno scontro, poi venne catturato dai tedeschi e dagli ustascia. Durante la prigionia contrasse una pleurite lavorando in una miniera di piombo nel Kossovo: “Guarii grazie alle cure di medici tedeschi. Ma tornai ch’ero 47 chili; pesavo una settantina prima…”.

 

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.