La “Grifai-Donati”.
Visita scolastica alla "Lapi".
Produzione delle tipografie nella Mostra dell'Artigianato del 1937.

Prestigio e limiti delle tipografie tifernati

Per l’economia locale la crescita dell’industria tipografica apriva prospettive incoraggianti. Allo scoppio della prima guerra mondiale già occupava circa 150 addetti, numero che sarebbe cresciuto considerevolmente nei due decenni successivi. Nel 1933, infatti, il numero unico “La Bozza” indicava in circa 370 il numero degli addetti, includendovi la “Pliniana” di Selci. Se ne calcolavano 120 alla “Lapi”, 110 alla “Leonardo da Vinci”, 70 all'”Unione Arti Grafiche”, 48 alla “Pliniana”, 6 alla Litografia Hartmann; inoltre 2 “maestri” e otto allievi alla Tipografia Orfanelli del Sacro Cuore. Alla “Grifani-Donati” in quell’epoca lavoravano una dozzina di persone.
Città di Castello era ormai diventata una piazza tipografica prestigiosa a livello nazionale. Non, come in precedenza, solo per la figura di Lapi; bensì per le capacità produttive di tutte le sue principali aziende. Esse diventarono solidi punti di riferimento per importanti case editrici, che commissionarono, oltre a una cospicua produzione libraria, un gran numero di riviste specializzate. Gli editori apprezzavano i tipografi tifernati sia per la convenienza del costo del lavoro, inferiore ad altri centri, sia per la qualità del lavoro. Si trattava infatti di una generazione di artigiani formatasi con il principio – ebbe a scrivere Giovagnoli – che gli stampati “nulla lasciassero a desiderare dal lato del bello”, recando “sempre un’impronta di correttezza e di decoro, di guisa che la produzione commerciale si avvicinasse quanto più possibile alla dignità di lavoro artistico”.
Dietro alla sostanziale stabilità delle tipografie di Città di Castello si celava una continua e talvolta sofferta operosità per mantenerle competitive. Le lamentele per la persistente inadeguatezza di un servizio fondamentale per l’industria, come i trasporti, si levavano soprattutto da tale settore, che richiedeva comunicazioni efficienti con le case editrici e i centri culturali nazionali. Invece il lento “trenino” dell'”Arezzo-Fossato” e la mancanza di uno sbocco ferroviario verso la Romagna e il Nord facevano ancora sentire il peso dell’isolamento della valle.
Nel contempo, tra le due guerre mondiali, l’arretratezza tecnologica sottolineò la latente debolezza delle tipografie. La cronica mancanza di capitali – esse lamentarono un problematico accesso al credito bancario – impedì tempestivi investimenti per acquisire macchinario più moderno. La composizione meccanica fece la sua comparsa solo negli anni Trenta e con un limitato numero di macchine monotype. Pertanto rimase a lungo prevalente la tradizionale composizione a mano, con un alto e costoso impiego di manodopera, soprattutto donne. Oltre alle difficoltà finanziarie, rallentavano il rinnovamento tecnologico il timore di una drastica riduzione di posti di lavoro in seguito alla meccanizzazione e il conservatorismo di quanti ritenevano che solo con la composizione a mano si potesse realizzare il “bel libro”. Mentre la concorrenza dei grandi centri si faceva sempre più stringente, la salvaguardia dei livelli occupazionali finì con l’essere garantita solo perpetuando un regime di bassi salari.