Carte intestate del Lanificio Vincenti-Giornelli.

L’ultimo lanificio

Mentre “Tela Umbra” viveva la sua eccezionale e faticosa avventura, sopravviveva poco altro dell’industria tessile tifernate. Nella seconda decade del Novecento, come s’è detto, l’ormai “microscopico lanificio” di Guglielmo Vincenti a Rignaldello stava per chiudere. Il figlio Vito non volle però rassegnarsi e nel 1920 trovò altri soci per dar vita al Lanificio Vincenti, Giornelli & C. Lui portò con sè il macchinario dell’opificio paterno e si riservò il ruolo di gestore; Giuseppe Giornelli e Mariano Bigi fungevano rispettivamente da cassiere e “capofabbrica”. Acquistarono altro macchinario e ottennero in affitto dal Comune alcuni locali al pianterreno dell’ex convento di San Filippo, con l’ex chiesa, già sede della pinacoteca comunale dopo l’Unità italiana.
Lo stabilimento, che effettuava la filatura e tessitura della lana, non ebbe un grande sviluppo. Nel 1927 dava lavoro a dieci addetti, tra cui sei donne. Nel frattempo Vincenti si era fatto da parte e la ragione sociale era mutata in Lanificio Giornelli & C. Di fatto rimase Bigi a mandare avanti l’azienda, ma non a lungo; comunicò infatti la cessazione dell’attività nel 1933. A quell’epoca, il macchinario del lanificio consisteva in due telai a freno positivo, cinque carde, un filandrone automatico, una rotatrice da 110 fusi e tre motori elettrici.
L’ex convento di San Filippo, che ospitava le scuole elementari, si animò ulteriormente per la presenza del laboratorio. Il lanificio vero e proprio occupava l’attuale palestra e altri locali al pianterreno; su via del Brandano dava la tintoria. Ma la convivenza tra vita didattica e vita produttiva destò inevitabili problemi; il Comune dovette infatti intimare di non lavare più lana nel cortile interno, sul quale davano le finestre della scuola, per “i vapori e le esalazioni sgradevoli” che ne derivavano.
Il ritiro della lana che i contadini portavano dalla montagna, specie di sabato, avveniva nello spaccio aziendale di corso Vittorio Emanuele II. “Dopo essere stata immagazzinata e imballata,” ricordava Walter Vincenti, figlio di Vito, “la lana veniva trasportata a San Filippo con dei carretti. Nel lanificio prima la cardavano a macchina, poi la filavano, quindi la tessevano con macchine a vapore; poi portavano i prodotti al Sasso, dove la nostra famiglia aveva una proprietà. Lì, lungo il torrente Soara, c’erano delle ‘valche’, dove i tessuti venivano battuti, ‘valchèti’.

Gli estratti dal volume Artigianato e industria a Città di Castello tra ‘800 e ‘900 mancano delle note