Nel giro di pochi anni il quartiere venne completamente urbanizzato. Al suo limite nord vi era viale Martiri della Libertà, con il “ponte di Scarpone” sul torrente Scatorbia. I lavori per realizzare la strada iniziarono in maniera convulsa nel 1946, per dare lavoro ai disoccupati. Vi si utilizzò pietrame ricavato dalla demolizione delle mura di porta San Florido, altro evento provocato dalla disperata pressione dei disoccupati nel dopoguerra. La strada, che apriva una nuova via di comunicazione tra la città e il cimitero, fu conclusa nel 1948.
All’estremo meridionale del quartiere sorsero gli imponenti capannoni della Fattoria Autonoma Tabacchi per l’essiccazione del tabacco tropicale. Un primo blocco lo innalzò nel 1958 la ditta romana A. Ghira & C., specializzata in strutture prefabbricate in cemento armato. Si trattava solo dell’inizio di un gigantesco complesso, al quale sarebbero stati aggiunti altri capannoni fino al 1965.
Nel quartiere si trasferì nel 1957 la sede dell’INAM (Istituto Nazionale Assicurazioni contro le Malattie). Era in via Elia Volpi, parallela di viale Liviero. La prese a frequentare tanta gente: oltre agli uffici, ospitava diversi ambulatori. Nella stessa via furono edificati appartamenti per dipendenti comunali.
Gli insegnanti elementari, riuniti in cooperativa, si costruirono i loro alloggi in via Celestino II. Le foto aeree qui a fianco, risalenti al 1961, dimostrano che le “case dei maestri” erano state già edificate, come tutti i palazzi che si affacciano in via Celestino II. In viale Carlo Liviero era allora in costruzione il lungo palazzo di due piani ai nn. 1-3, che fa angolo con via XXV Aprile. Era ancora da urbanizzare – escluso l’edificio dell’ONMI – il resto del terreno tra via XXV Aprile, via Angelo da Orvieto e viale Vittorio Emanuele Orlando.
Le vicende dello sviluppo del quartiere si intrecciano con le memorie personali. Avevo solo tre anni quando andammo ad abitare lì e i primi ricordi sono vaghi. Diventano però vividi dal 1956-1957 in poi. Era un’epoca nella quale non si stava chiusi in casa, tutt’altro. Non solo i piazzali divennero un naturale campo giochi per i tantissimi bambini di quelle case popolari (e continuavano a nascerne di continuo!), ma anche i campi circostanti. Eravamo inconsapevoli testimoni della frenetica crescita della periferia. Si giocava a pallone in un campo e dopo pochi mesi bisognava sloggiare da là, perché vi iniziava un nuovo cantiere. Poco male: ci si spostava nel campo più vicino. Dopo pochi mesi, altro spostamento. Èandata avanti così per anni. Gli stessi cantieri offrivano piacevoli occasioni di gioco, con i cumuli di sabbia, il materiale di scarto, le mattonelline colorate che arredavano i pavimenti dei bagni. Per noi ragazzi anche le strade erano campetti di calcio. Passavano così poche autovetture…
Uno degli ultimi spiazzi a essere edificato fu quello dopo il Tre Bis, dove ora sorge il palazzone di cinque piani al n. 2 di viale Liviero. Lì ci organizzammo i “giochi olimpici”; lì ci ho visto un piccolo circo, persino la mattazione di un maiale; lì fui testimone di una violenta battaglia a sassate tra la “ghenga” del Tre Bis – cioè noi – e gli “invasori” del Fiorentino: dico testimone, perché non ero caratterialmente molto portato a combattimenti di tale violenza (volarono certi sassi!!!) e rimasi prudentemente nelle retrovie.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.