Annunci pubblicitari e carte intestate di modiste tifernati.

Le modiste

I cappelli da donna li facevano le modiste, dette anche crestaie. Questi capi di vestiario, fabbricati su misura, erano indossati da donne di classe agiata; le popolane portavano ben più modesti fazzoletti.
Nell’ultimo scorcio di sovranità pontificia le poche botteghe tifernati di modiste operavano in un ambito assai modesto: “In questa città non si trovano modiste nel vero senso, benché ne porti alcuna il nome; giacché non si tiene un corredo di oggetti, ma si lavora ciò che si ordina, e per lo più si riforma il vecchio, anziché fare il nuovo”.
Il negozio di maggior prestigio a Città di Castello, dopo l’Unità d’Italia, lo aveva Rita Ricci; il suo “laboratorio e vendita di generi di moda” si situava al pianterreno di palazzo Pierleoni, in corso Vittorio Emanuele II. “Crestaia” di fiducia del conte Florido Pierleoni, gli vendette spesso cappelli per la moglie e per le figlie; talvolta ne prese anche a riparare.
Nel 1881 si contavano otto modiste, la metà delle quali proprietarie di bottega. Oltre a Rita Ricci, figuravano Luigia Carancini, Maria Vargas e Argia Gelli. Era di quest’ultima la modisteria più importante, che rifornì di cappelli da donna tutta la Città di Castello benestante. Si affacciava su “piazza di sopra”, nel locale attualmente segnato dal n. 2e. Esisteva già nel 1878, quando la romagnola Gelli si era trapiantata in città dopo aver imparato il mestiere a Firenze. Un suo annuncio pubblicitario documenta come, insieme alla fabbricazione dei cappelli, la bottega smerciasse una gran varietà di articoli per vestiario femminile. Vi si legge infatti: “Forniture per sarte e modiste, fondini e cappelli in paglia, busti, maglie, copribusti, calze, guanti, ventagli, ombrellini, fazzoletti in tela e in seta. Sciarpe seta. Assortimento in chincaglierie e altri generi. Speciale assortimento in cuffie e cappelli da bambini”.
Ma Argia Gelli era soprattutto modista, con un gran daffare per clienti che esigevano cappelli da passeggio, da matrimonio o da lutto ben personalizzati, mai uguali a quelli indossati da altre. Venivano fabbricati del tutto a mano, su modelli scelti dopo attenta osservazione delle proposte delle riviste di moda (“i figurini”). Ricorda la figlia di Argia: “Le modiste realizzavano su una forma l’intelaiatura del cappello in filo di ferro. Il colore di questo cordoncino dipendeva da quello del cappello. Anche lo spessore cambiava. Poi bisognava rivestire la struttura, secondo i modelli, di tessuto, stoffa, chiffon, crespo o crêpe de chine; ad esempio i cappelli da lutto erano fatti di crespo. L’abilità della modista stava proprio nel lavoro di rivestitura. La falda del cappello era fatta o con la stessa intelaiatura di filo o di ‘spartarì’, una specie di tessuto di paglia che rimaneva teso. Quindi vi applicavano un filo di ferro più spesso, in cima, per mantenere la forma. Infine cucivano insieme la falda con la cupola. C’era anche una fodera interna, in tralice; veniva applicata all’ultimo.”
Argia Gelli teneva in bottega quattro o cinque donne, tra operaie e allieve. Lavoravano proprio di fronte alla vetrina che dava sulla piazza, tanto che le si poteva vedere da fuori. La clientela, per gli acquisti o le ordinazioni, si accomodava nello stesso vano adibito a laboratorio.
Quando la moda del cappello femminile prese a diffondersi dagli ambienti benestanti ai ceti popolari, si ampliò anche l’offerta di articoli più commerciali, prodotti su base industriale. Proprio negli anni ’30 le ultime modiste – Giuseppina Bioli, Iris Franchi e la stessa Argia Gelli – una dopo l’altra cessarono l’attività.
Gli estratti dal volume Artigianato e industria a Città di Castello tra ‘800 e ‘900 mancano delle note