La Società Lavorazione Legnami di via della Fraternita – detta “Agnellotti” da uno dei suoi proprietari – e la “Cristini” effettuavano il lavoro di segheria per i falegnami locali. Si chiamava “smacchinatura” e consisteva sia nella segatura e conciatura di tronchi d’albero, sia nella preparazione di componenti da assemblare.
Agostino Nisi vi fu addetto per anni alla “Cristini”: “I falegnami ci portavano il legno non appena ne trovavano. Lo facevano smacchinare subito; poi lo stagionavano. Talvolta i contadini portavano tronchi interi di pianta con i carri; era legname del padrone, che lo teneva da parte per quando doveva fare dei lavori. Lo tagliavo con la ‘sega grossa’. Il legname che portavano a smacchinare era più che mai oppio, olmo, cipresso, noce, faggio, molto meno la quercia. Venivano a smacchinare anche i falegnami di campagna, con il barroccio: venivano fino da Lama, da Selci e da Apecchio. Anche da Serravalle, sotto Monte Nerone; portavano il loro legname fino ad Apecchio con i ‘basti’, poi proseguivano per Castello. Smacchinavo anche per il carraio Mastriforti; gli facevo le bure. Preparavo pure le doghe per le botti; dopo non dovevano far altro che assemblarle col cerchio.”
Per la “smacchinatura” ci volevano diversi tipi di lama, a seconda della specie di legname da segare. “Il legno ‘muscio’, mezzo secco, è il peggio legno che si sega; è difficile a strappare, ci vogliono denti molto sterzati, radi, se no si impasta, deve portare via parecchia segatura. Se è appena tagliato, è il meglio legno che si sega; allora ci vuole la sega un pochino più delicata. Per segare la quercia, l’olmo, i legni duri, ci vuole una sega con dente più fitto e meno sterzato.”
Per il lavoro di “smacchinatura” dei tronchi si rivelò più adeguata, per il maggior spazio a disposizione, la “Cristini”, situata fuori le mura. Nella stretta via della Fraternita, Agnellotti riusciva a effettuare lo stesso lavoro, ma con maggiori rischi. Una volta “lo scarico dei pesanti tronchi di legno fatti cadere dall’automezzo” provocò la rottura dei lastroni della fogna della strada e la ditta dovette provvedere alla riparazione.
Negli anni ’20 la tariffa base per “smachinè” si mantenne sulle L. 6 l’ora; nel 1930 la segatura di travi di albero costava L. 8 l’ora (oppure L. 2 il mq), quella di strisce da tetto L. 6.40.
Nel Tifernate, dal 1925 effettuò lavori di smacchinatura anche la falegnameria-segheria dei Mencaccini, a San Secondo.
Negli anni ’20 prese l’avvio anche la segheria di Dino Garinei in via Borgo Farinario, a ridosso delle mura. Costruiva botti per la Fattoria Autonoma Tabacchi. Il consorzio, infatti, invece di effettuare in proprio tale lavorazione, riteneva più conveniente affidarla a terzi. Le botti erano costruite con legno di pioppo selezionatissimo e ben asciutto.
Nel 1936 la segheria passò a Domenico Onofri. Era nipote di quel Francesco che dopo l’Unificazione italiana aveva avviato a Morra una rilevante impresa di produzione di carbone, legna da ardere e infine traverse per la ferrovia. Imprenditore coraggioso, Domenico nel 1937 decise di investire un consistente capitale in Africa Orientale. Si interessò di esportazione di legname, ma soprattutto impiantò due segherie per la fabbricazione di mobilio per un mercato locale che si sperava in sviluppo. L’azienda di Addis Abeba arrivò a dare lavoro a circa 200 addetti. Il personale più qualificato Onofri se lo portò da Città di Castello: tra gli altri lo raggiunsero i falegnami Agostino Spelli, Antonio Gustinelli e Omero Briganti. Le avverse vicende del secondo conflitto mondiale frustrarono le ambizioni imprenditoriali africane di Onofri, che perse tutto. Gli inglesi vittoriosi smantellarono e portarono con sé anche il macchinario di prim’ordine del mobilificio di Addis Abeba.
Intanto, in quell’infausto 1940 che segnò l’entrata in guerra dell’Italia, una nuova disgrazia si era abbattuta sugli Onofri. Un incendio aveva distrutto completamente la segheria di via Borgo Farinario. Lo stabilimento fu trasferito nell’area detta “il Fiorentino”, in via Diaz, appena fuori le mura. Continuò a fabbricare botti per la FAT e inoltre, dal 1949, anche quelle traverse per la ferrovia che fino ad allora venivano prodotte esclusivamente nei boschi. La segheria visse fino al 1963, quando la caduta della domanda di traverse in legno e di legna da ardere – rimasto sempre un settore rilevante dell’azienda – indusse Aurelio Onofri a tentare nuove vie imprenditoriali.
A Città di Castello è esistita un’altra segheria, di proprietà di Antonio Nardi. Operava già nella seconda metà degli anni ’30, fuori porta Santa Maria, nei pressi della circonvallazione e della linea ferroviaria di allora.