Le bandiere britannica e americana ai lati dell’ingresso del palazzo comunale (foto Imperial War Museum).
Ingresso delle truppe britanniche a Città di Castello.
Foto ricordo dei "liberatori".

La liberazione

Il testo che segue è tratto da “Cronaca di Città di Castello.Dal 25 luglio 1943 al 22 agosto 1944”, in Giulio Pierangeli. Scritti politici e cronache di guerra, a cura di Antonella Lignani e Alvaro Tacchini, Petruzzi Editore, Città di Castello 2003.

“La città al 22 luglio non appariva molto colpita nei suoi edificii, perché pochi erano quelli crollati e non numerosissimi quelli lesionati; lo spettacolo penoso era offerto dalle serrande sventrate dei negozii, dalle tracce di scassinature alle porte delle case. Ma era colpita nella sua vita economica: rimasta senza luce, senza acqua, senza forza motrice, senza merci nei negozii, senza ferrovia e senza ponti nelle strade di accesso alla città, non poteva riprendere il suo ritmo normale di vita se non dopo un lungo periodo di ricostruzione. Ferrovieri, tipografi, meccanici rimanevano senza lavoro; i mezzi di comunicazione si limitavano alle biciclette sfuggite alle rapine e ai pochi cavalli; si tornava indietro di un secolo, e per rifare quanto era perduto, per riavviare la vita commerciale e industriale, occorrevano mezzi, tempo, spirito di iniziativa: un lungo periodo di sacrificii e di dolori per adattarsi alla nuova vita, per adeguarsi alla situazione nuova era nelle previsioni di tutti quelli che gradatamente rientravano, rallegrandosi di aver salvato la vita.
In campagna la situazione si presentava migliore; la perdita seria era quella del bestiame asportato, forse la metà di quello esistente, e per la ricostruzione del patrimonio zootecnico non pareva possibile fare affidamento su acquisti, sia perché anche in altre zone eguali rapine erano avvenute, sia perché i prezzi del bestiame salivano a vertiginose altezze: ai raccolti in corso i danni si presentavano minori e sanabili. I contadini avevano continuato a lavorare normalmente quasi ovunque fino a tutto giugno, completando in almeno due terzi del territorio la mietitura del grano; il raccolto di questo si presentava molto promettente con un incremento sulla produzione già alta nel 1943; l’andamento stagionale era stato molto favorevole per le patate, per il granoturco, per i legumi; molto colpita appariva la produzione del tabacco, specialmente quella del tabacco leggero, per le mancate zappature e per le insuperabili difficoltà della tempestiva irrigazione; l’uva malgrado la mancanza di anticrittogamici non era compromessa. Vi erano quindi le condizioni obiettive per una ripresa, anche perché i contadini non erano animati da propositi di turbolenza e da rivendicazioni della terra, come nel torbido dopo guerra del 1919: se da parte della borghesia fondiaria vi sarà un riconoscimento spontaneo dei sacrifici compiuti dai contadini per la difesa del bestiame, per la mietitura e in genere per l’andamento dei lavori campestri; se la borghesia stessa andrà loro incontro con spirito di collaborazione e di solidarietà umana, è sperabile che si possa giungere a una ripresa senza turbolenze e senza scosse1. La ripresa della campagna, che pure ha visto sfumare le sue antiche economie pecuniarie per la tremenda svalutazione della lira, agevolerà la ripresa della città per quanto essa si presenti laboriosa.
L’atteggiamento della massa della popolazione verso le truppe inglesi, anche se di colore, fu molto cordiale, come cordiale fu quello di dette truppe e specialmente di quelle bianche; a differenza dei tedeschi, che occupavano le case e tenevano un contegno per lo meno altezzoso, gli inglesi si attendavano e dormivano all’aperto senza disturbare comunque i civili; offrivano sigarette; non chiedevano vino pur gradendone molto l’offerta; qualche isolato episodio di disturbi alla quiete privata da parte di soldati di colore trovava pronta repressione invocando l’intervento dei graduati inglesi.
Naturalmente qualche guasto fecero anche queste truppe di colore, specialmente nei campi ove erano coltivate patate, pomodori e legumi; qualche capo di pollame sparì, qualche casa fu visitata per prelevamenti arbitrarii; ma si trattò sempre di casi sporadici, che non autorizzavano i superstiti elementi del filofascismo a dire che gli uni valevano gli altri. Basta il rilevare che mentre la popolazione civile all’appressarsi di un tedesco fuggiva e cessava ogni circolazione di biciclette e di cavalli, essa salutava cordialmente gli inglesi e circolava liberamente senza preoccupazioni. Episodi di danneggiamenti ai prodotti rurali e di furtarelli si verificarono anche nelle grandi manovre dei soldati italiani nel territorio nazionale, e che episodi del genere siansi verificati durante il passaggio delle truppe inglesi e indiane non può far meraviglia: ma il numero limitatissimo e il pronto intervento repressivo dei semplici graduati tolgono ad essi ogni importanza.
Gli episodii più spiacevoli si verificarono a danno del prof. Sergio Mochi, antifascista convinto additato non si sa da chi come un fascista, e a danno del dottor Petroni, altro antifascista. La Villa Mochi presso Belvedere fu oggetto di una perquisizione, in cui sparirono argenterie e altre cose di valore; la villa Petroni di Userna, rimasta disabitata, fu aperta sconquassando infissi e mobili. I casi furono segnalati al Comando, che fece in proposito indagini di cui ancora non conosco l’esito”.