Annuncio pubblicitario e carte intestate di falegnami produttori di bare.

La fabbricazione delle bare

Un po’ tutti i falegnami di un tempo costruivano bare: lavoro saltuario, ma costante e talvolta redditizio, soprattutto se capitava un “morto di lusso”, per il quale veniva ordinata una cassa ben rifinita, con incastri a coda di rondine, e di legno pregiato, il ciliegio. Considerato però il basso tenore di vita di gran parte della popolazione, la norma erano bare assai ordinarie, di “castagno di Caprese Michelangelo”, di cipresso o di noce. Quand’ancora non esistevano imprese di pompe funebri, un amico di famiglia del defunto chiamava il falegname, che costruiva la cassa su misura, mentre un amico stagnino realizzava la zincatura (“facéa lu zingo”). Poi tornavano loro a chiuderle, poco prima della cerimonia funebre e del trasporto, affidato alle carrozze di “Michele de Nando”, Michele Campriani.
Simili alle bare per i poveri erano quelle di gran parte dei contadini, costruite con abete, pioppo o cerro, secondo il legno che il falegname di campagna aveva disponibile. Talvolta, un parente del defunto veniva giù in città con il mulo e si faceva costruire una cassa lì per lì: “a tésta quèdra”, con quattro semplici tavole di abete, o di pioppo, che facilitava una decomposizione più rapida: senza alcuna zincatura, solo una veloce “spenelèta” con acqua ragia e tinta nera.
Al funerale di chi moriva in condizioni di totale miseria, per lo più all’ospedale, all’ospizio, negli orfanotrofi o al “manicomio”, dovevano pensarci il Comune e la Congregazione di Carità, che davano in appalto la costruzione delle casse funebri. Erano assai più spoglie di quelle che Eugenio Marioli pure offriva “a prezzi modicissimi”: “Trovasi pronte casse funebri di noce a urna foderate di zinco e imbottite a satin, di castagno a urna foderate di zinco, a urna di pino o abete foderate di lamiera, semplici di qualunque qualità o spessore”. Si trattava infatti di bare modestissime – “quatro tavole grezze d’abeto, quatro chiodi e via…” -: casse “a tésta quèdra”, senza “code di rondine”, senza cornici, per lo più senza zincatura, perché destinate alla sepoltura nella nuda terra. Il trasporto al cimitero avveniva con la “Carolina”, il carro funebre così chiamato dal nome della prima defunta che vi fu posta.
Nel 1931 Giuseppe Pazzaglia si aggiudicò l’appalto delle casse per i defunti indigenti dell’ospedale a queste condizioni: casse per adulti L. 22, fanciulli dai 4 ai 7 anni L. 12, bambini L. 8. Quattro anni dopo, il nuovo fornitore di bare, “Vasìntone” Berretti, chiese inutilmente un aumento. In effetti le tariffe erano assai basse, ove si consideri che nel 1933, in occasione dei funerali del prof. Nazzareno Giorgi, Giuseppe Rossi addebitò L. 180, legno e fattura, per la cassa “in legno cipresso con sopra coperchio a tomba con code di rondine e lucidato a spirito”, e L. 70 per la copertura in zinco; sei anni prima, Antonio Rubechi era stato saldato con L. 500 per una “cassa funebre di castagno con cornige di noce e zingo”. Nel 1939 Berretti tornò a insistere, lamentando come da ormai troppo tempo producesse bare “a remissione”: ogni cassa, sostenne, gli costava L. 32, e cioè L. 28 in legno, L. 1 in bullette e L. 3 in fattura. Ottenne così di aggiornare le tariffe proprio a L. 32 per gli adulti, L. 25 per i fanciulli, L. 7 per i bambini. Quanto ai costi delle bare ordinarie, nel 1940 Matteo Biagini fornì quella di legno di cipresso per i funerali del pittore Marco Tullio Bendini a L. 550, zincatura compresa.
Durante la guerra, le tariffe delle casse per i poveri subirono sensibili ritocchi, soprattutto per l’incremento dei costi del legname. Nel 1943 quelle per gli adulti giunsero a costare L. 90 e fu chiesto un ulteriore aumento a L. 125. Dopo la Liberazione i costi lievitarono ancora. Giuseppe Rossi costruì le bare per le vittime dei bombardamenti: addebitò L. 1.500 per quelle ordinarie, L. 1.900 per una di castagno e L. 2.900 per un’altra di cipresso.

Previdentemente, i falegnami costruivano per tempo la propria cassa funebre, solida e dignitosa. C’era chi la teneva nel fondo di casa, chi in bottega e chi – si favoleggia – non avesse altro posto per conservarla che sotto il letto.