Gruppo ricordo della “Francini” (particolare).
Eduino Francini

La banda partigiana “Francini” e la rivolta di Sansepolcro

Nell’autunno del 1943 un nucleo di giovani antifascisti di Sansepolcro trovò rifugio nella località montana di Seccaroni, sull’Alpe della Luna. Erano decisi ad opporsi ai bandi di chiamata alle armi e al servizio obbligatorio di lavoro emanati dal regime fascista repubblicano. Animava il gruppo un ragazzo ancora diciassettenne, Eduino Francini. Dopo aver incontrato ad Arezzo Antonio Curina, dirigente provinciale del movimento di resistenza antifascista, andò alla macchia con altri compagni sulle montagne a ridosso di Sansepolcro. La costituzione formale della banda è fatta risalire al 7 novembre 1943. Pur mantenendosi in collegamento con il Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista di Arezzo, volle mantenersi autonoma.
Inizialmente si aggregarono una trentina di giovani. A dicembre una parte di essi si trasferì a Seccaroni. Nei due abbandonati casolari sperduti tra i monti e i boschi potevano sfuggire alle ricerche dei nazi-fascisti, ma restavano esposti ai duri rigori invernali. Avevano ancora poche armi e modestissima esperienza militare. Gli antifascisti di Sansepolcro raccolsero fondi e generi alimentari per sostenerli. Con il nuovo anno, però, per sopravvivere dovettero requisire viveri e beni di prima necessità presso alcune fattorie della zona.
Alla fine di febbraio 1944, il miglioramento delle condizioni climatiche permise alla banda di effettuare le prime incursioni. Prese a pattugliare il territorio montano tra i valichi di Viamaggio e Bocca Trabaria e, il 24 febbraio, attaccòun punto di avvistamento della milizia fascista alle Colobraie, in comune di Sestino. Furono prelevate delle armi e rimase ucciso un milite. L’8 marzo la formazione partigiana attuò una cospicua requisizione ai danni della fattoria di Brancialino, nel territorio di Pieve Santo Stefano.
Poi avvenne un episodio con pesanti e spiacevoli strascichi. La sera del 14 marzo un nutrito gruppo di partigiani comandato dal fiorentino Ermete Nannei, entrato a far parte della banda di Seccaroni, prese di mira la fattoria Geddes, ad Aboca, in comune di Sansepolcro. L’incursione fece emergere i rischi e le contraddizioni che comportava la pratica delle requisizioni. Furono proprio alcuni partigiani ad accusare Nannei di aver prodotto “ingiustificate devastazioni” e di aver asportato “circa 30 chili di argenteria”, rivelandosi un “profittatore tendente a sfruttare la banda per i suoi scopi disonesti”. Le testimonianze convergono sul fatto che Nannei venne sottoposto a duro interrogatorio dai compagni della banda; divergono però sul suo esito. Certo è che Nannei chiese poi conto con molta aggressività delle accuse mossegli.
Tale controversia minò irreparabilmente la compattezza della banda, arrivata a contare una sessantina di elementi. Alcune fonti indicano come causa determinante della crisi proprio il controverso comportamento di Nannei, perché stava macchiando la reputazione dell’intero movimento antifascista della zona. In seguito a ciò, alcuni abbandonarono il covo di Seccaroni. Altri – tra cui Eduino Francini ed Ermete Nannei – decisero di trasferirsi verso sud, nello Spoletino, dove si riteneva che il capitano Melis fosse a capo “di ingenti forze partigiane”.
Quanto al bottino del saccheggio compiuto da Nannei, nel dopoguerra i partigiani lo avrebbero recuperato, “dopo varie indagini”, sul colle di Montevicchi, restituendolo ai Geddes.

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Il 19 marzo 1944 la popolazione di Sansepolcro si ribellò apertamente alle autorità fasciste, che avevano ordinato l’anticipazione del coprifuoco alle ore 18. La misura repressiva era stata adottata a causa dell’aggressione subita due giorni prima da un sostenitore della Repubblica Sociale Italiana. Invece di rientrare nelle proprie case, la gente rimase per strada; e quando le forze dell’ordine tentarono di far rispettare il coprifuoco, prese forma in modo spontaneo un corteo di protesta. La manifestazione – nella quale si udirono canti social-comunisti, colpi d’arma da fuoco e scoppi di petardi – si esaurì senza gravi conseguenze.
L’ordine pubblico sembrava dunque ripristinato quando, verso le ore 20, entrarono a Sansepolcro dei partigiani discesi dalla loro base sull’Alpe della Luna. La trentina di uomini – secondo le autorità fasciste “una forte banda ribelle, evidentemente in connivenza con i dimostranti” – cercò di assaltare la caserma della Guardia Nazionale Repubblicana, occupò il posto telefonico pubblico e poi scorrazzò per il corso cittadino su un’autocorriera della “Baschetti”, sparando colpi in aria e lanciando bombe a mano contro la casa di un fascista. I partigiani non sapevano però che in piazza Torre di Berta s’erano appostati militi fascisti inviati di rinforzo da Città di Castello. Solo grazie alla prontezza di spirito dell’autista Luigi Baschetti, che puntò i fari del torpedone verso le mitragliatrici, impedendo un tiro accurato, i partigiani ebbero l’opportunità di darsi alla fuga.
La reazione fascista – altri militi giunsero da Arezzo e da Perugia – portò al fermo e all’interrogatorio di numerosi cittadini, alla perquisizione di abitazioni e a uno strascico di violenze e intimidazioni che si protrasse tutta quella notte e il giorno successivo.
Gli eventi di Sansepolcro del 19 marzo suscitarono vasta eco, soprattutto per il significato politico della spontanea protesta di massa contro il regime fascista. Per quanto la popolazione ebbe a soffrire per la cappa di violenza che gravò sulla città, in termini di vittime le conseguenze degli scontri furono tutto sommato limitate: si contarono tre feriti tra carabinieri e militi fascisti e uno o due tra i partigiani; inoltre fu assassinato un uomo, in circostanze rimaste oscure.
I partigiani che presero parte all’incursione su Sansepolcro si divisero in tre gruppi. Eduino Francini e altri 12 compagni proseguirono, come era nei piani, verso il sud dell’Umbria; altri preferirono tornare sull’Alpe della Luna; altri ancora si spostarono sull’Alpe di Catenaia per aggregarsi a una banda di slavi.

 

Testo privo di note tratto da Alvaro Tacchini, La battaglia di Villa Santinelli e la fucilazione dei partigiani, Quaderno n. 12 dell’Istituto di Storia Politica e Sociale “Venanzio Gabriotti”, Città di Castello 2017.