Il processo si celebrò a Perugia l’8 dicembre di quel 1917. Sul banco degli accusati sedettero 25 donne e 6 uomini. Provenivano da San Giustino (17), Celalba (3), Pitigliano (3), Corposano (3), Lama (3), Citerna (1), Sansepolcro (1). Delle donne, 9 erano le contadine o mezzadre, 7 le braccianti, 2 le massaie: le altre figuravano come operaia, bottegaia e sarta. Quanto agli uomini, 3 lavoravano come contadini, uno faceva il fabbro e un altro il mattonaio; Luigi Bosi era dottore in agraria.
Pesanti le imputazioni e le richieste di pene:
a) per “assembramento in luogo pubblico e dimostrazioni contro la guerra”, reato previsto dall’art. 3 del r.d. 23 maggio 1915 n. 674, fino a tre mesi di reclusione per chi partecipò a tutti i tre giorni di proteste;
b) per il “rifiuto all’intimato scioglimento” della protesta, il 24 aprile, 17 giorni di reclusione;
c) per i danneggiamenti provocati, sei mesi di reclusione e una multa da L. 300 a L. 400;
d) per violenza privata esercitata ai danni di altri cittadini costretti a firmare il memoriale contro la guerra, tre anni di reclusione.
In merito alle “grida sediziose”, l’impossibilità di identificare con precisione le responsabili indusse a proporre l’assoluzione generale per insufficienza di prove.
I magistrati giudicanti, pur riconoscendo generiche attenuanti alle imputate, ammisero la necessità di una severa risposta da parte dello Stato, proprio per porre freno a un fenomeno di manifestazioni di protesta che si stava estendendo e aggravando:
“Quanto alla pena, il Collegio osserva che se da un lato non è il caso di gravar troppo la mano su queste donne più ignoranti che colpevoli, facile strumento per sconosciuti quanto ignobili sobillatori, e che hanno anche subito la reciproca suggestione, ed il fermento [?] psicologico della folla, dall’altro canto il dilagare e l’aggravarsi di simili deplorabili fatti, di tali inconsulte e vandaliche dimostrazioni sconsiglia da soverchia mitezza, tanto più che a Sangiustino si prolungavano per ben tre giorni consecutivi”.
Che la situazione rischiasse di degenerare se ne ebbe prova appena qualche giorno dopo i fatti di Sangiustino nella stessa Alta Valle del Tevere. La rabbia femminile contro la guerra e le pesanti condizioni di vita esplose ancora a Città di Castello. Si trattò di una manifestazione di protesta furente, di massa, di cui non restano che poche testimonianze e che fu drammaticamente interrotta solo dalle scosse di terremoto che la mattina di quel 26 aprile 1917 provocarono devastazioni e terrore.
Il tribunale di Perugia adottò quindi il pugno duro, specie contro le nove “più turbolente e riottose”. Subirono il massimo della pena – quindi tre anni, da tre a nove mesi, e 17 giorni di prigione, oltre alla multa, cumulando i periodi di detenzione attribuiti per ciascun reato – le seguenti donne:
Marinelli Maria Domenica, detta Lina, colona di anni 22 di San Giustino, “unanimemente indicata fra le caporione più riottose dei tumulti tanto nei danneggiamenti come nella violenza del pomeriggio del 23 aprile per la firma del memoriale”; Bardossi Maddalena, detta Nenaccia o Pippetta, di anni 33 di San Giustino, “concordemente indicata come una delle più turbolente caporione”; Carobbi Maria, detta Bompochetta, di anni 33, di San Giustino (“a Colle Plinio si mette a capo dei tumulti anche col cappello dell’arciprete, dopo averne invasa e devastata l’abitazione”; Cecconi Maria, massaia di anni 34 di San Giustino, “concordemente indicata fra le più attive nei danneggiamenti”; Capaccioni Concetta, di anni 34, di Citerna; Bastianoni Agostina, operaia di anni 28 di Pitigliano; Bruscoli Luigia, colona di anni 30 di San Giustino; Rosai Amelia, contadina di 28 anni di San Giustino; Spapperi Veronica, bracciante di 46 anni di San Giustino, “una delle più turbolente”.
Furono inoltre condannate per i danneggiamenti e per assembramento e dimostrazione contro la guerra, con sei mesi e 17 giorni di detenzione più la multa:
Massi Maddalena, massaia di anni 56 di Lama; Biondi Maria, bracciante di 27 anni di San Giustino; Bettacchini Palma, contadina di 32 anni di San Giustino; Falaschi Domenica, bracciante di 24 anni di Corposano; Nunzi Teresa, casalinga di 27 anni di Corposano; Biserti Emma, contadina di 27 anni di San Giustino; Nicolucci Rosa, colona di 34 anni di Pitigliano; Lanzi Elisabetta, contadina di 26 anni di San Giustino; Campanelli Antonio, contadino di 57 anni di San Giustino; Cristini Alfonso, fabbro di 36 anni di San Giustino, che un teste indicò “essere il capo, e lo sentì che indicava alle dimostranti le case contro le quali dovevano scagliar sassi”.
Leggermente più lievi, con cinque mesi e 14 giorni di prigione, più L. 250 di multa, le condanne di: Nunzi Giuseppa, contadina di anni 18 di Corposano; Rigucci Maria, bottegaia di anni 19 di San Giustino.
Apparvero meno gravi le accuse verso le seguenti donne, che comunque subirono da 48 a 98 giorni di carcere:
Giorgeschi Maria, bracciante di 23 anni di San Giustino; Cecconi Elisa in Boninsegni, bracciante di 36 anni di San Giustino; Antimi Teresa, bracciante di anni 18 di San Giustino; Torrioli Palma, contadina di anni 18 di Pitigliano; Boccaletti Lucia, bracciante di anni 20 di Celalba; Mecocci Luisa, sarta di anni 15 di Lama.
Tra gli uomini, si videro condannare a due anni, tre mesi e 17 giorni di reclusione:
Radicchi Agostino, detto il Trentino, contadino di anni 24 di Celalba; Polchi Annibale, colono di 57 anni di Celalba.
Un solo assolto, il giovane Virgilio Veschi, mattonaio di soli 13 anni di Lama, che si ritenne non avesse “agito con discernimento”.
Veniamo infine al trentunesimo imputato, Luigi Bosi, quello che, a posteriori, appare come l’evidente “bersaglio” politico dei settori più conservatori dello schieramento altotiberino. La ricostruzione dei fatti dimostrò che non fu certo lui a provocare i tumulti, dato che intervenne alla fine del secondo giorno di agitazione, quando gran parte delle violenze erano già state commesse. Le sole due testimoni a favore dell’accusa riferirono che, nell’incontro con le donne all’interno della sala-teatro di Sangiustino, Bosi aveva incitato a continuare l’agitazione, ma ammisero di averlo udito raccomandare “di non portare armi e di non commettere danneggiamenti”. Il collegio giudicante prestò poca attenzione a queste testimonianze, dato che le due donne rimasero “solo per pochi minuti” nella sala-teatro. Parvero ben più credibili altri testi i quali, sebbene avversari politici di Bosi, lo scagionarono sia per il ruolo pacificatore assunto in occasione della manifestazione (il sindaco Giuseppe Battaglini “lo sentì in Comune sconsigliare le donne dal proseguire nella dimostrazione”), sia perché non risultava loro che avesse mai fatto propaganda contro la guerra nelle campagne (lo affermarono, tra gli altri, i medici condotti Ferri, di San Giustino, e Scatolari, di Sansepolcro). Gli stessi articoli scritti da Bosi nel settimanale socialista altotiberino «La Rivendicazione» – dovettero constatare i giudici – ne dimostravano la pacatezza politica e l’assenza di intenti sovversivi.
Non poteva dunque bastare il semplice fatto di essere influente dirigente del partito socialista (che pure, sostennero i giudici, “così nefasta propaganda ha fatto e fa contro la guerra”), per venire additato come la mente di un’agitazione talmente vasta, insolita e tumultuosa. Per di più, non piacque affatto ai giudici che la denuncia contro Bosi fosse stata inoltrata il 31 maggio, oltre un mese dopo i fatti, da quel vice commissario di pubblica sicurezza Argenti che “ebbe con lui frequenti contatti […] e fu in grado di conoscere l’opera subito, negli stessi giorni dei tumulti”. A minare ulteriormente la credibilità di Argenti ci pensò un testimone al processo: lo aveva sentito dichiarare che “Bosi era uno dei contrari alle dimostrazioni”.
Nonostante il pesante clima politico che durante la Grande Guerra rese difficile la vita e l’azione pubblica di chi osteggiava l’intervento dell’Italia nel conflitto, il tribunale di Perugia fece valere le ragioni del diritto e caddero i timori di quanti temevano che Bosi potesse restare vittima delle “fobie antisocialiste”. Non rischiava poco l’uomo politico di Sansepolcro: la pubblica accusa aveva chiesto dieci anni di carcere, più tre anni di sorveglianza speciale e migliaia di lire di multa.
La corte di appello di Perugia riesaminò il caso il 20 giugno 1918 e confermò le decisioni della corte di assise. «La Rivendicazione», pur rallegrandosi per l’assoluzione di Bosi, lamentò la “enormità della condanna” subita dalle dimostranti. La corte di cassazione, chiamata ad esprimersi sulla vicenda il 6 dicembre 1918, rigettò ogni ricorso.
Intanto la guerra era finita vittoriosamente e si crearono le condizioni per riconsiderare il caso con maggiore mitezza. Fu così che, il 4 marzo 1919, il tribunale di Perugia ammise tutti i condannati a beneficiare del provvedimento di amnistia decretato il 21 febbraio di quell’anno.
Per le note, si veda il documento allegato.
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Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.