Italo Ottaviani
Manifesti e numeri unici stampati dalla "Grifani-Donati" nel secondo dopoguerra.

Il dopoguerra

La morte di Leonida Carbini Grifani, nel maggio del 1943, privò la tipografia di una figura carismatica proprio alla vigilia degli eventi più traumatici per Città di Castello della seconda guerra mondiale. Di essa si servirono i tedeschi di stanza in città per avvisi, manifesti e cartoline, i fascisti per dare alle stampe il loro periodico “Ricostruire” e, dopo la Liberazione, gli inglesi. Fortuna volle che, durante il passaggio del fronte, nel giugno-luglio del 1944, non subisse danni, né il vandalico saccheggio perpetrato dai tedeschi a danno di altre aziende e di privati. Ma l’industria tipografica fu comunque pesantemente vittima della guerra: bombe britanniche nel maggio di quell’anno distrussero i saloni di lavorazione dello Stabilimento Lapi, costringendo ad anni di disoccupazione i suoi operai.
Cessate le ostilità, la “Grifani-Donati” riprese a produrre subito e senza sosta. Il riavvivarsi della vita amministrativa ed economica non faceva certo mancare lavoro commerciale. Bisognava però saper affrontare situazioni di emergenza, che ricacciavano a un passato ormai lontano. Fino al ripristino dell’erogazione dell’energia elettrica, infatti, anche la stampa tornò ad essere del tutto manuale: mentre un addetto girava la manovella che metteva in funzione la macchina, un altro inseriva i fogli.
Il ritorno a condizioni di normalità significò riacquisire la tradizionale clientela. Il ritardo nella ricostruzione dello Stabilimento Lapi – restò inattiva fino al 1950 – accrebbe per qualche anno il lavoro: “Ci sono stati dei periodi che si lavorava pure la notte, quando la Lapi era chiusa. Stampavamo anche i loro libri.” Anche il risveglio del libero confronto politico fu fonte di lavoro. Nel 1946 – anno che vide susseguirsi le prime elezioni amministrative e il voto per l’assemblea costituente – la sezione locale del Partito Comunista Italiano pubblicò alcuni numeri di “Voce Proletaria”. Qualche mese prima erano stati i liberali a chiedere di stampare “Il Progresso”.
In occasione di quell’annata elettorale il torchio “Elia Dell’Orto” della tipografia venne tanto usato che finì con il rompersi. Il candidato liberale Bonuccio Bonucci ordinò addirittura mille manifesti tricolori di tre metri di lunghezza per settanta centimetri con un’iscrizione che invitava a votarlo. Siccome li si ricavava componendo tre sezioni 70×100, in pochi giorni il torchio “gemette” tremila volte solo per i manifesti di Bonucci. Ricorda Italo Ottaviani: “Si lavorava in continuazione. Il torchio si ruppe per la grande pressione che doveva esercitare. Le lettere, di faesite, erano state fatte appositamente in una falegnameria, perché di quella grandezza non esistevano.”
Il torchio venne subito riparato; e non è andato mai “in pensione”. Ha mantenuto infatti una sua utilità soprattutto per la stampa di manifesti a bassa tiratura. Di quelli funebri, ad esempio, un tempo se ne produceva appena una decina, il minimo necessario per il centro urbano. Il testo veniva composto direttamente sul piano di stampa del torchio, poi, dopo aver fatto una bozza di controllo, si imprimevano fogli con cornici e decorazioni prestampate. In meno di un’oretta, se pensava a tutto un unico tipografo, il lavoro era pronto. Naturalmente, con il passar degli anni e con l’espansione della città, si richiese un numero maggiore di manifesti funebri, fino a 30-40. Ce ne volevano invece anche una cinquantina per il Carnevale. La loro impostazione grafica costringeva spesso a fabbricare in proprio, con il legno o con il cartone, caratteri di grande dimensione o di forma inusitata e particolari figure.
Tra i suo clienti fissi, la “Grifani-Donati” annoverava la Ferrovia Centrale Umbra, che, dopo le distruzioni belliche, nel 1955 riaprì la linea verso Città di Castello e Sansepolcro. Gli avvisi e manifesti con gli orari dei treni costituivano uno dei cimenti più complessi e minuziosi per un compositore. Preparare un orario del tutto nuovo poteva richiedere un minimo di venti giorni di lavoro. Quelli successivi venivano composti sulla base del precedente, modificando esclusivamente l’indicazione delle ore. La F.C.U. ne abbisognava di due all’anno. Capitava anche che in tipografia – bontà della lenta composizione a mano! – ci si accorgesse di imprecisioni nell’orario, permettendo così di apportare per tempo provvidenziali modifiche.
Nel dopoguerra diradò ulteriormente la stampa di volumi prodotti per propria iniziativa editoriale e per autori locali. Alcuni sacerdoti furono suoi clienti: Oreste Fiorucci, Vittorio Boscain, Edoardo Marconi e don Antonio Minciotti. L’Istituto “La Cieca della Metola” continuò a produrre l’omonimo periodico e di tanto in tanto richiese altre pubblicazioni. Inoltre, sempre per committenti religiosi, la “Grifani-Donati” mise mano a bollettini parrocchiali, tra cui “La mediatrice del perdono” per il Santuario di Santa Veronica, a volumetti divulgativi sulla figura di santa Veronica Giuliani, uno dei quali in lingua inglese, a libretti di preghiere e a opuscoli, come quelli per l’elezione di mons. Fiordelli a vescovo di Prato, per il ventennale dell’ingresso in città di mons. Filippo Maria Cipriani e per la riapertura al culto della chiesa di San Domenico restaurata. Delle altre sporadiche pubblicazioni, per lo più rendiconti o relazioni di natura amministrativa per Comune, Cassa di Risparmio e Ospedali Uniti, merita una particolare menzione la riedizione, in un unico volumetto dal titolo Mèdrelengua castelèna, di varie opere in dialetto tifernate.
Finì con l’interrompersi pure la lunga tradizione di periodici e numeri unici di carattere politico e culturale. Nel Carnevale del 1947 i tipografi riproposero “La Bozza”. Il 15 febbraio celebrarono la loro festa sociale; l’indomani si strinsero ancora attorno a “papà Ernesto”, che aveva “mandato il primo vagito” ottanta anni prima, “fra il cigolare dei vecchi torchi e lo schioccare delle fraschette”. Poi vi fu solo un fiorire di pubblicazioni occasionali carnevalesche e goliardiche. Tra quelle censite, la “Grifani-Donati” produsse “La Passara”, per la sezione tifernate dei cacciatori, “Castello in aria”, per gli universitari tifernati, e “La Battilarda della Valtiberina”, “Baciuccole”, “Il balestriere” e “Il razzo” per gruppi redazionali prevalentemente di Sansepolcro. Diversi di questi giornaletti uscirono in epoca natalizia, il momento migliore per i promotori per dare libero sfogo alla loro vena satirica, raccogliere inserti pubblicitari e scroccare qualche lira ai lettori.
Quando Ernesto Grifani morì, a 87 anni nel 1954, lasciò una tipografia nelle buone condizioni alle quali aveva saputo ancorarla da lungo tempo. Alla fine del decennio si calcolava che vi fossero ancora 13 addetti in tutto. Tra di essi, della famiglia proprietaria, lavoravano con continuità in azienda Alberto, Mario, Italo Ottaviani e la moglie di Mario, Flora Ceciarini; della “vecchia guardia” restavano Cesare Lensi, Giuseppe Grifani, Luciano Ghigi, Giuseppina Moscatelli e Nerina Battistelli; altri – Alda Mastriforti e Goffredo Coltrioli – erano stati assunti di recente.
Fu acquisito nuovo macchinario: nel 1955 una macchina pianocilindrica belga “H. Jullien”, 80×110, con mettifoglio a mano e uscita a stecca; poi, nel 1960, una platina del 1903 “Victoria Original Tiegeldruck” ristrutturata; infine un tagliacarte elettrico e un torchio calcografico.
Gli anni Sessanta furono un periodo di transizione. Alberto venne meno nel 1962; il figlio Mario nel 1969. Si cominciò pure a non sostituire chi andava in pensione o si licenziava. La tipografia, che non aveva mai subito in questo secolo serie crisi di lavoro, dovette infatti cominciare a fare i conti con una progressiva diminuzione di commesse, imputabile in primo luogo a un’accresciuta concorrenza.
Dagli anni Cinquanta, un processo di frammentazione, prima lento, poi dirompente, portò alla nascita di nuove aziende. Per quelle “storiche” si aprì una tormentata fase di dissesti e ridimensionamenti. Nel 1953 parte delle maestranze della “Leonardo da Vinci” fondarono la Società Poligrafica Editoriale; nel 1959 la stessa “Leonardo” fallì, continuando di fatto l’attività come “Tiferno Grafica”; nel 1967 giunse al capolinea la cooperativa “Unione Arti Grafiche”, rilevata da Antonio Abete e denominata Tipografia Arti Grafiche; nel 1975, infine, si concluse anche l’avventura della “Lapi”, con personale e macchinario acquisiti dalla “Delta Grafica”.
Nel frattempo il contesto economico e sociale veniva stravolto da trasformazioni epocali. La popolazione comunale, censita in 37.146 unità nel 1951, crebbe di poco nei dieci anni successivi, per poi diminuire vistosamente a 35.279 nel 1971. Fu quella l’epoca dell’abbandono in massa delle campagne da parte dei mezzadri e di un inurbamento che fece lievitare la popolazione della città, in vistosa espansione, fino alle 23.196 persone del 1971. Prese l’avvio un’industrializzazione sospinta da consistenti incentivi creditizi e fiscali e dalla disponibilità in città di un’ampia area attrezzata periferica. Così, mentre l’agricoltura perdeva l’antico primato e l’industria si candidava a trainare la valle verso lo sviluppo economico, bravi tipografi cresciuti professionalmente nei grandi stabilimenti cominciarono a nutrire l’ambizione di mettersi in proprio e trovarono le condizioni favorevoli per dar vita ad aziende artigiane. Ciò fu ancor più accentuato dalla crisi irreversibile delle tipografie che tradizionalmente effettuavano al loro interno l’intero ciclo di produzione, dalla composizione alla legatoria. L’evoluzione tecnologica richiese infatti unità produttive fortemente specializzate, anche se piccole, in grado di effettuare con profitto una maggiore mole di lavoro. Tale processo di specializzazione, avviato dalle legatorie, si estese poi alle altre fasi di produzione. Contestualmente Città di Castello diventava anche una piazza cartotecnica di prestigio nazionale.
Per una tipografia come la “Grifani-Donati”, oltre che piccola e tecnologicamente arretrata, pure difficilmente accessibile e ristrutturabile negli antichi vani sopra la “Pesceria”, iniziò un’inevitabile decadenza. L’aver preservato l’antiquato macchinario, la rugosa sede e quella personalità unica che solo vestigia non retoriche del passato possono conferire ha finito con l’aprire nuove e coraggiose prospettive di sopravvivenza.

 

L’estratto è una sintesi del testo in A. Tacchini, La Grifani-Donati 1799-1999. Duecento anni di una tipografia (1999).