Il Comitato Clandestino di Soccorso di Città di Castello

A primavera Città di Castello continuava ad essere un significativo centro di antifascismo clandestino soprattutto in virtù del coraggioso impegno di Venanzio Gabriotti. Gli stessi Alleati ne avrebbero poi parlato come di un uomo “sempre antifascista”, l’“unico che abbia dispiegato grande attività nell’organizzazione delle bande patriottiche e nel loro sostegno dopo l’armistizio”, attività di cui beneficiarono “diverse bande” tra Umbria e Marche. Il dirigente del Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista dell’Aretino, Antonio Curina lo definì “ottimo amico” e “capo del movimento clandestino di liberazione per l’Alta Valle del Tevere”. Un episodio conferma i contatti operativi tra gli oppositori di Arezzo e di Città di Castello. Dei partigiani – non si sa bene di quale formazione – impiantarono una “stazione radio trasmittente clandestina” a Bocca Trabaria. Però i fascisti lo vennero a sapere e il CPCA chiese aiuto proprio a Gabriotti per avvertire al più presto del pericolo il nucleo addetto al funzionamento della stazione radio. Il tifernate si mosse con prontezza e riuscì a farlo “tempestivamente spostare in luogo sicuro”. Di quanto spaziasse e fosse efficace l’attivismo di Gabriotti fa fede la testimonianza del pietralunghese Evaristo Milli: “Ai primi di aprile ebbi un incontro a Castelfranco, nella casa del parroco, con Venanzio Gabriotti. Si parlò apertamente delle ambizioni del movimento di Resistenza, cioè di cacciare i tedeschi e di voler fare piazza pulita dei residui del fascismo. E si pensava che per combattere bisognava unirsi come forze combattenti. Da quel giorno entrai a far parte del movimento partigiano”.

Insieme ai collaboratori più stretti, Gabriotti costituì a Città di Castello il Comitato Clandestino di Soccorso per le bande alla macchia. Si riunì per la prima volta il pomeriggio di venerdì 14 aprile, nella casa del giovane insegnante Amedeo Mastriforti. Erano persone legate da amicizia e reciproca stima, assai diverse per età, ceto sociale, cultura e opinioni politiche. Coltivavano idee democratico-cristiane Mastriforti, l’avvocato Donino Donini e Gabriotti. Liberale e massone era l’anziano insegnante siciliano Giuseppe Segreto; bandito dalle scuole pubbliche per il suo antifascismo, aveva trovato lavoro in una istituzione privata tifernate, il Collegio Serafini. Simpatizzava per il liberalismo anche lo studente universitario Aldo Bologni, ex-ufficiale da tempo in contatto con la Brigata “San Faustino” e vicinissimo a Gabriotti sul piano operativo. Di idee comuniste, Giovanni Taffini e Giuseppe Antoniucci: questi era un capomastro molto benvoluto in città. Infine Ivo Carletti, vicino al Partito d’Azione, e l’ispettore didattico Teodorico Forconi, con il figlio Cola, maestro, entrambi di tendenza socialista.

Il comitato prese in esame la fattibilità di azioni militari in città, persino il sequestro di gerarchi fascisti; ma proprio Gabriotti dissuase i convenuti al riguardo, paventando i rischi di rappresaglie contro la popolazione. Urgeva invece inviare aiuti concreti ai patrioti in montagna. Era quanto richiedeva pressantemente la “San Faustino” e a ciò finì per dedicarsi il comitato. Inoltre si percepivano come un grave limite della Resistenza lo scollamento tra le bande ai due lati del Tevere e le divergenze politiche e operative tra la “San Faustino” e la Brigata Garibaldi, perché impedivano un’azione comune sull’Appennino umbro-tosco-marchigiano. L’onere del difficile e delicato lavoro di coordinamento delle bande se lo prese Gabriotti. Annotò nel suo diario: “Mi capita di dover assumere gravi responsabilità”. Gabriotti già aveva una vasta rete di relazioni e, in quanto amministratore dei beni ecclesiastici, poteva giustificare le sue visite in montagna con la necessità di incontrare i parroci.

Per quel che riguarda i rifornimenti alle bande, furono raccolti in città e fatti recapitare agli uomini alla macchia generi alimentari, indumenti e una cospicua somma di denaro.

La rete cospirativa stava abbracciando un numero crescente di persone. Quando si riunì il comitato, era incarcerato dal 6 marzo a Perugia il direttore della Scuola Tecnica Agraria Carlo Nicastro. Dopo l’armistizio aveva contribuito alla Resistenza soprattutto rilasciando numerosi falsi attestati di iscrizione alla sua scuola per permettere ai giovani di eludere gli obblighi di lavoro. Uscito di cella il 27 aprile, riprese a collaborare con Gabriotti, incoraggiando i militi a disertare dalla Guardia Nazionale Repubblicana e ad andare alla macchia. Altri punti di riferimento del comitato furono Primo Mariani e Cesare Testi. Questi, originario di Montevarchi, era tenuto in gran conto perché “particolarmente abile nell’agire con segretezza e mantenere i rapporti con gli uomini alla macchia”.

Un altro personaggio che si mantenne a stretto contatto con il comitato tifernate fu, a Citerna, il farmacista Nicola Rotondella. Vi era sfollato da Roma a febbraio e, “d’accordo con pochi che sentivano alto l’amore della libertà”, costituì una cellula antifascista alla quale aderirono l’ing. Adolfo Dolfi e addirittura due graduati della locale stazione dei carabinieri: il comandante Ignazio Gelardi e l’appuntato Antonio Gabriele. Durante la primavera il piccolo nucleo si adoperò a indicare rifugi sicuri a renitenti e disertori e a fuorviare le ricerche per trovarli. In particolare Rotondella riuscì a sottrarre uomini al servizio del lavoro “approfittando della sua veste sanitaria”. Funse da collegamento tra lui e il comitato di Città di Castello Amedeo Mastriforti, che lo incontrava spesso. Proprio dal farmacista di Citerna Mastriforti ebbe materiale sanitario poi inviato ai partigiani della “San Faustino”.

Continuando ad allargare i suoi orizzonti in ambito altotiberino, Gabriotti stava intrecciando uno stretto rapporto con lo scrittore Agostino Turla, a lui vicino ideologicamente e molto legato a San Giustino. Lo conobbe il 6 aprile: “[…] sta scrivendo un romanzo di attualità. Ci siamo intesi su molti punti. È della Democrazia Cristiana”. Lo rivide dieci giorni dopo a Sansepolcro, insieme ad altri amici con i quali – scrisse Gabriotti – ebbe “una lunga discussione e consenso alle mie idee”. Quanto ai suoi contatti con gli antifascisti di Sansepolcro, erano ormai consolidati e gli permettevano di valutare il movimento di Resistenza in un contesto territorialmente vasto, apprezzandone meglio la forza: “Nel pomeriggio sono andato a Sansepolcro, ove ho avuto anche molte notizie su tante cose. Il movimento di opposizione è sempre più esteso. Dicono che si combatte sulle montagne di Verghereto, Badia Tedalda, Caprese ecc.”.

I fascisti di Città di Castello sospettavano che gli oppositori tramassero qualcosa. Che Gabriotti fosse al centro di qualche complotto lo davano per scontato, anche perché non sempre adottava le opportune precauzioni nella sua attività clandestina. Così strinsero i controlli su di lui. Più difficile risultò per loro mettere a fuoco la rete di persone che operavano in clandestinità e agivano con grande circospezione. Fermarono e interrogarono Amedeo Mastriforti, ma non riuscirono a raccogliere da lui alcuna informazione utile. Eppure si rendevano conto che la situazione si stava aggravando. Nella notte dal 22 al 23 aprile vennero affissi nella piazza principale della città “manifestini sovversivi” che i militi della GNR riuscirono a rimuovere prima che la popolazione li potesse leggere. Il contenuto degli stampati suonava provocatorio e beffardo per il regime: “La Repubblica Sociale ci salverà… ammazzandoci con le restrizioni annonarie”; “Nella terra di Mazzini / non c’è posto pei pirati / fuori fuori Mussolini / e all’Italia libertà”; “Può darsi che chi aspetta gli inglesi muoia aspettando ma chi aspetta la vittoria tedesca può considerarsi già morto”; “Attenti fascisti che il vostro manganello non diventi un bomerang [sic]”; “Vi giunga o fascisti gradito il saluto dai ribelli W l’Italia libera”. Per quanto la tempestiva rimozione dei manifestini avesse evitato uno smacco al regime, non potevano che accrescersi le sue preoccupazioni per la consapevolezza di essere diventato bersaglio di oppositori nascosti, sfuggenti e ormai pronti a tutto.

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.