Bottega del chiodaiolo in una stampa di fine ‘700.

Chiodaioli e bullettai

I fabbricanti di chiodi venivano chiamati chiodaioli o bullettai, dal termine bulletta – “bu­lètta” in dialetto – che identificava i chiodi corti con capocchia larga. I loro molteplici pro­dotti rispondevano ai bisogni professionali dei tanti artigiani e a quelli d’uso domesti­co della popolazione urbana e campagnola. Quanto ai fabbri, in genere fabbricavano da sé in officina i chiodi necessari per i loro manufatti.
Tra i primi chiodaioli che si incontrano nel­la documentazione dell’Ottocento sono due fabbri, un tal Tricchi e Nicola Selvi. Vendevano i loro chiodi a baj. 10 la libbra; spesso ne smerciavano di usati, allo stesso prezzo.
Il censimento industriale del 1824 permette di analizzare più a fondo le caratteristiche di tale ramo dell’artigianato. Si contavano a Città di Castello otto “fabbricatori di bollette”, per un totale di 21 “uomini” e 11 “ragazzi”. I lavoranti venivano pagati a cottimo, con baj. 97 per ogni 6.000 pezzi realizzati. Come materia pri­ma usavano “verzella” di Trieste, acquistata ad Ancona o Senigallia; la preferivano perché, a parità di costo, si consumava meno al fuoco ed era più dura di quella reperibile nello Stato pontificio. Il loro prodotto trovava acquirenti sia nella campagna che nelle Marche e a Ro­ma, a un prezzo di sc. 3,13 ogni 6.000 bullette. Giovanni Resi, con tre operai e due garzoni, ne fabbricava in un anno 1.285.715, per un valore complessivo di sc. 638,92. Era sua la bottega più produttiva: consumava annualmente 6.000 libbre di verzella e sc. 5 di carbone e pagava sc. 8 per l’affitto del locale. Si trattava naturalmente di artigianato tradizionale, senza il supporto di alcuna macchina: gli attrezzi principali non erano che forgia, incudine, chioda­ia, scalpello e martello. Altri bullettai di cui si ha un po’ di documentazione so­no i Vallini, Giuseppe e il figlio Vincenzo, ap­partenenti alla stessa famiglia dei fabbri ferrai che risiedevano in via Trastevere, nel quartiere di San Giacomo, e tenevano bottega nel sobborgo del Cavaglione.
Altre indicazioni vengono dal ruolo dei contribuenti per la tassa di esercizio promulga­ta nel 1850. Allora si presero in considerazio­ne due “bollettari da scarpe”, GioBatta Alessandrini e Paolo Bartoccini, entrambi braccianti e giornalieri. Poi, per avere dei dati ufficiali, bisogna passare al 1881, quando il censimento stimò in 35 – di cui sette padroni di bottega e 28 lavoranti giornalieri – i chiodaioli o bullettai nel Comune.
Alla scarsezza di documentazione contribuisce il fatto che si trattava di un’occupazione povera e praticata o da solitari artigiani o in mi­nuscole botteghe. Eppure resta vivido nei più anziani il ricordo di questi “bulettèi” che, prima della diffusione commerciale di chiodi e bullet­te prodotte su scala industriale, rifornivano il mercato locale per i suoi variegati bi­sogni.
Antonio Benni, detto “Chiavèla” o “Pèpa”, aveva una botteguccia in via della Mattonata. Vi lavoravano in due, cominciando a battere sull’incudine di buon mattino, con comprensibile disappunto del vicinato. Nei giorni di mercato Benni prendeva gli attrezzi, la bicornula da calzolaio e un banchetto e si metteva all’entrata di porta Santa Maria, vicino al fruttivendolo Serafini, conosciuto col soprannome di “Ringhelli”. Lì “ambulettèa” le scarpe dei contadini, i quali, per limitarne l’usura, facevano applicare dei ferrettini come sopratacchi e, ai lati delle suole, delle speciali “bulètte” con ampia capocchia. La domenica mattina Benni partiva a piedi per Monterchi, sede in quel giorno di un importante mercato, per svolgervi lo stesso lavoro. Si faceva pagare a seconda del numero di “bulètte” applicate.
Un altro “bulettèjo”, con bottega in fondo a via dei Randoli, era Adelmo Sgaravizzi. Nei pressi lavorava il collega Dolciami. I giorni di mercato andavano insieme a cavallo a Umbertide, Gubbio e Pietralunga. Oltre a vendere i loro chiodi e ad “ambulettè” le scarpe dei contadini, fabbricavano morsette per i buoi. Poi, quando presero a circolare i chiodi di produzione industriale, Adelmo si riconvertì in calzolaio2. Qualcuno non aveva bottega. “Giuan el Modenese” andava a lavorare nell’officina Falchi & Beccari: “Poràcio, nn era bóno da gnènte, gni ci gìa quatro o cinque caldi per fè n lavóro che ne bastèon méno…” Oltre alle “bulètte”, questi artigiani senza un proprio laboratorio vendevano al mercato morse per i vitelli, piccole ferrature e qualche catorcio.
Ai “bulettèi” si richiedeva comunque notevole perizia. Disponevano sotto la forgia, alimentata da carbone di castagno, alcune sottili verghettine di ferro (“bachètte”) già tagliate a misura; appena una era adeguatamente riscaldata, la ponevano sull’incudine e con il martello “tiravano” la punta del chiodo; poi lo tranciavano quasi interamente e lo infilavano nella chiodaia, un congegno applicato al­l’in­cudine che permetteva loro di fare la capocchia all’altra estremità. Il tutto con pochi abili colpi di martello, velocemente, sfruttando un solo “caldo” per i chiodi più semplici e nel contempo azionando con il piede il mantice per tenere vivo il fuoco e portare al giusto li­vello di calore le successive verghettine. Le differenze in misura, in forma e in spessore dei chiodi, con capocchie diverse per ciascun tipo, sottolineavano la difficoltà della lavorazione.