Il palazzo municipale.
"Piazza di sopra", o Vitelli, alla fine dell'Ottocento.
Corso Cavour fotografato da Enrico Hartmann.

Alla fine dell’Ottocento

Nel 1892 il comune di Città di Castello contava 27.374 abitanti; solo circa 6.000 abitavano nel centro urbano. L’economia locale era basata sull’agricoltura, che soddisfaceva i bisogni locali, ma si manteneva arretrata. Ammontavano a 424 i proprietari terrieri e a oltre 12.000 i mezzadri; inoltre lavoravano per lo più nei campi 3.000 braccianti. L’arretratezza dell’agricoltura, anche secondo gli osservatori dell’epoca, dipendeva in minima parte dall’atavica ignoranza dei contadini; la responsabilità ricadeva più che altro sullo scarso spirito di imprenditorialità dei proprietari. I contratti colonici penalizzavano il mezzadro: i prodotti venivano divisi solo sulla carta a metà e la maggior parte delle famiglie contadine viveva in condizioni di pesante indebitamento. La miseria nelle campagne prendeva la forma di abitazioni fatiscenti, di alimentazione carente, di analfabetismo endemico, di comunicazioni difficili, di condizioni igieniche precarie e di situazione sanitaria pesante, con la malattia della pellagra in crescente diffusione tra la popolazione rurale. Tale contesto di povertà trova riscontro solo in parte e in alcuni dettagli nelle fotografie realizzate da Hartmann nelle campagne, che ritraggono soprattutto momenti di intenso lavoro collettivo e di serena rilassatezza festiva.

In città non esisteva che un’industria di rilievo, lo Stabilimento Lapi; l’officina della ferrovia, il Lanificio Vincenti, le fornaci e la piccola succursale della “Buitoni” di Sansepolcro avevano una modesta consistenza occupazionale. Dopo la recente decadenza di filande, lanifici e cappellerie, non parevano esserci grandi prospettive di crescita nel settore manifatturiero. Il tessuto di minuscole imprese artigianali mancava di tradizioni particolari e di risorse umane e finanziarie tali da poter far presagire lo sviluppo industriale che sarebbe avvenuto di lì a qualche decennio. L’agognata Ferrovia Appennino Centrale dal 1886 aveva attutito l’isolamento della valle, ma intanto l’insoddisfacente livello delle condizioni di vita e la carenza di lavoro stavano spingendo in molti a emigrare verso la Francia e l’America; il flusso sarebbe diventato impetuoso all’inizio del Novecento.

Da un punto di vista politico, il collegio uninominale di Città di Castello e Umbertide eleggeva alla Camera dei Deputati un uomo di prestigio, il barone Leopoldo Franchetti, che aveva acquistato un cospicua tenuta nei pressi della città, costruendovi la villa della Montesca nella quale risiedeva saltuariamente. I monarchici ancora detenevano una salda egemonia, ma proprio in quell’ultimo scorcio del secolo prese sempre più vigore una vivace opposizione guidata dal repubblicano Giuseppe Nicasi e, dal 1895, da un combattivo nucleo di socialisti. Contestualmente prendevano corpo le prime esperienze sindacali.

In città si portava a compimento il rinnovamento urbanistico iniziato, all’indomani dell’Unificazione italiana, con la costruzione del nuovo ponte sul Tevere e con l’ampliamento dell’adiacente mercato del bestiame. Le amministrazioni comunali avevano poi effettuato altri interventi significativi: la demolizione di porta San Florido, sostituita da una barriera; l’ampliamento delle attuali vie XI Settembre e Angeloni, che costituivano un tratto della strada provinciale dalla Toscana per Perugia; la lastricatura di numerose arterie urbane; la sistemazione dei giardini del Cassero; l’abbattimento di porta Sant’Egidio e la creazione di piazza Garibaldi, con l’erezione del monumento all’Eroe dei Due Mondi; la costruzione della stazione ferroviaria. Alla fine del secolo piazza Matteotti – allora piazza Vitelli – assunse l’aspetto attuale con il definitivo abbattimento del complesso di San Fortunato e il rifacimento della facciata di Palazzo Vecchio Bufalini; di lì a poco vi sarebbero cominciati i lavori di costruzione della sede della Cassa di Risparmio. Alcune fotografie di Hartmann documentano in modo prezioso sia le condizioni architettoniche della città in quell’epoca, sia i cambiamenti che la stavano interessando.

La rete assistenziale si articolava in diversi istituti: gli Ospedali Uniti, con 92 letti, il brefotrofio (alla fine del 1892 si contavano 478 esposti viventi), il ricovero di mendicità, l’orfanotrofio e altre opere pie dedite al mantenimento e all’educazione di giovani indigenti e all’elargizione di sussidi dotali a fanciulle povere. Il tessuto del volontariato assistenziale e mutualistico – e di questo Città di Castello poteva menare particolar vanto – era ricco e attivo. Le Cucine Economiche offrivano pasti caldi nei mesi invernali ai più bisognosi; la Società Tifernate di Pubblica Assistenza soccorreva infortunati e malati. Centinaia di cittadini erano soci della Società di Mutua Beneficenza, della Società Patriottica degli Operai, di due società di mutuo soccorso di reduci e di altre nove associazione di mestiere che in genere garantivano varie forme di assistenza ai propri membri. Stava pure affermandosi lo spirito cooperativo: esistevano cooperative di lavoro tra gli operai braccianti e tra i muratori e cooperative di consumo tra i tipografi della “Lapi” e tra i dipendenti della Ferrovia Appennino Centrale. Del fecondo ambiente associativo tifernate portavano testimonianza anche le 25 confraternite di città e le 30 di campagna.

Il livello culturale generale risentiva ancora dei secolari problemi di sottosviluppo della zona. L’impegno delle istituzioni e delle associazioni era comunque lodevole. Si considerava ormai generalizzato l’avviamento all’istruzione elementare dei bambini in città; difficoltà assai maggiori permanevano nel vasto territorio comunale, dove operavano 26 scuole con un migliaio di allievi, ma si era ben lungi dall’estirpare la piaga dell’analfabetismo. L’offerta scolastica post-elementare comprendeva il Ginnasio e la Scuola Tecnica; nell’anno 1892-1893 le frequentavano 51 maschi e 18 femmine. Nel 1897 Silvio Serafini fondò un collegio, sito nell’ex convento detto delle Giulianelle, che acquisì rinomanza nazionale. Vi erano in città anche una pinacoteca, meta per lo più di visitatori forestieri, e una biblioteca comunale ricca di antichi volumi ma poco frequentata, perché sprovvista di opere di autori contemporanei; ma era con il volontariato della Società Filopedica e della sua biblioteca popolare circolante che si cercava di diffondere la lettura tra i ceti meno abbienti. Il Comune mantenne in vita la scuola di musica, che garantì un continuo sostegno a una banda municipale longeva e molto attiva. L’associazionismo culturale comprendeva l’Accademia Scientifico Letteraria dei Liberi, il Circolo Tifernate – “ritrovo colto e piacevole” per uomini e donne della società benestante -, e l’Accademia degli Illuminati, proprietaria del teatro cittadino. Allestivano spettacoli anche i dilettanti filodrammatici, il cui gruppo riusciva a sopravvivere a periodiche crisi di partecipazione. Rilevante fu l’impatto nella cultura tifernate dell’opera di Scipione Lapi e del suo Stabilimento: da un lato divennero frequenti le visite di illustri intellettuali; dall’altro studiosi e letterati locali trovarono proprio in Lapi l’editore pronto ad appoggiarli e ad aprire orizzonti più ampi.

Prendevano corpo anche più moderne e consistenti esperienze sportive. Mentre viveva i suoi ultimi anni di popolarità il giuoco del pallone – ben diverso dall’odierno football -, annoveravano un numero crescente di appassionati la Società del Tiro a Segno e il Veloce Club Tifernate, che allestì in quegli anni diverse competizioni ciclistiche. Per il resto, il tempo libero organizzato ruotava soprattutto intorno alle manifestazioni carnevalesche e a qualche estrazione della tombola.

Prospettive turistiche parvero aprirsi nell’ambito termale, per la presenza in città dello Stabilimento Balneare di Fontecchio – noto per le proprietà terapeutiche della sua acque e dei suoi fanghi – e dello Stabilimento Idroterapico di Angiolo Bini, nei pressi della stazione ferroviaria. Proprio il dinamico farmacista tifernate acquisì allora la proprietà di entrambi gli stabilimenti, proponendoli come stazioni di soggiorno e di cura a una clientela nazionale.

Nell’ultimo decennio dell’Ottocento Città di Castello ebbe modo di fronteggiare due antichi nemici: l’alluvione del novembre 1896 e una serie di forti scosse telluriche l’anno dopo rammentarono ai tifernati che quella natura che aveva loro donato un suolo così fertile e un paesaggio così armonioso poteva anche assumere un aspetto minaccioso. Proprio la furia delle acque del Tevere dovette suscitare una particolare emozione in Hartmann, che ci ha lasciato l’unica testimonianza visiva di quell’evento.

Il testo è tratto da Enrico Hartmann a Città di Castello, a cura di Alvaro Tacchini, Catalogo della mostra fotografica retrospettiva, Petruzzi Editore, Città di Castello 2001. Mancano le note, inserite nel testo originale.