Le tensioni tra radicali e socialisti e, all’interno del mondo cattolico, tra conservatori e innovatori erano ben poca cosa rispetto alla guerra aperta e senza esclusione di colpi che divampava tra lo schieramento cattolico da un lato e quello laico dall’altro. Città di Castello s’era fatta fama di città "riottosa e turbolenta" e a Perugia ironizzavano sul gran numero di processi a sfondo politico con protagonisti tifernati.
Il periodico radicale “Corriere Tiberino” dette manforte alla pattuglia di quei cattolici “dissidenti” che osteggiavano la linea pastorale imposta dal vescovo Liviero. A marzo ospitò lettere critiche contro Liviero firmate da un sedicente Don Gervasio. Poi, a luglio, iniziò a scrivervi un altro sacerdote, che affermava di essere parroco di montagna e si nascondeva dietro lo pseudonimo di Don Baldo. Tutt’altro che intimorito dalle critiche, il vescovo sfidò i dissenzienti (“avanti signori che il gioco è bello!”) e dette il via a una aspra campagna contro la massoneria, i radicali e il socialismo.
Ad agosto, la processione per i festeggiamenti della Madonna delle Grazie fu intesa dai cattolici come una prova di forza. Il loro giornale, “Voce di Popolo”, vantò la partecipazione di cinquemila persone, più uomini che donne, dietro a ben 104 bandiere, ed irrise gli anticlericali: “hanno dovuto, come gufi, stare rintanati durante la sfilata”. Però la tensione eruppe in serata. Offesi dal rifiuto di Liviero di accettare come madrina – si legge in “Voce di Popolo” – “una ragazza popolana in un costume tutt’altro che adatto ad un rito religioso di tanta gravità”, alcuni parenti e amici dettero il via a una vivace protesta che dilagò fuori della chiesa e si trasformò in una manifestazione contro il vescovo. Giunti in piazza di sotto, i manifestanti presero a lanciare contro il palazzo vescovile “quanto capitava loro fra mano, bucce di melone, corteccie di cocomero, pezzo di calcinaccio, colpendo qua e là all’impazzata” e “cantarono l’inno dei lavoratori come farebbe un coro di briachi”.
La tensione riesplose alle celebrazioni del XX Settembre, anniversario della presa di Roma. Ma i socialisti, per quanto continuassero ad apostrofare Liviero come “ineffabile don Carlone” e “rubicondo vescovo”, dovettero ammettere che la sua opera di riorganizzazione dell’ambiente cattolico stava avendo successo:“Bisogna essere giusti: Liviero trovò un clero secolare freddo e incerto, disorganizzato e privo di disciplina, più sollecito dei vantaggi che dei pesi del ministero, quietista ad ogni costo, imitatore perfetto di don Abbondio; ed egli, un po’ con le buone e un po’ con le cattive […] seppe organizzarlo e disciplinarlo, farne insomma una compagine degnissima del capo”. E ancora: “Piacque e dilettò immensamente il contegno plebeo e volgare del Presule, l’ostentazione della umiltà delle origini, la frase grassoccia, la barzelletta ridanciana vellicante gl’istinti inferiori della folla amorfa, le sapienti invettive contro i preti fannulloni, le minacce grottesche contro i socialisti e i miscredenti in generale: e la folla inferiore del contado, non tocca ancora dai faticosi tentativi della nuova civiltà, vide in Liviero un capo spirituale degno di lei […]”.